In testa ai loro sogni una bicicletta cinese

Ripubblichiamo un articolo del 1972 tratto dalla Domenica del Corriere, accompagnato da una riflessione personale.

Vi presentiamo un album fotografico dell'Albania, il più chiuso tra i Paesi comunisti. Adesso il regime di Enver Hoxha incoraggia un po' di turismo, ma il partito sembra ben poco disposto a tollerare le mode occidentali. Gli albanesi non si lasciano per nulla avvicinare dai visitatori, interpretando alla lettera il motto del loro capo: "E’ la paura che fa la guardia alla vigna"

Foto di VITTORIANO RASTELLI


Un albergo di Durazzo riservato ai turisti. Davanti si legge uno slogan che inneggia a Mao.

Soltanto una decina d’anni or sono, una tribù di nomadi skipetari poteva permettersi di vivere al confine tra l’Albania e la Jugoslavia sfruttando il clima di isteria esistente tra i due Paesi (il primo stalinista e filocinese, il secondo sulla strada del revisionismo) con episodi che rasentavano il grottesco. I nomadi passavano da una parte all’altra del confine, e in ogni Paese venivano tutti catturati e imprigionati. Potevano lasciare le prigioni soltanto quando avessero promesso in cambio di un po’ di denaro oltre che della libertà, di passare dall’altra parte per riportare informazioni riservate. Il gioco è andato avanti per anni, dando vita al primo e forse unico caso di spionaggio di massa della storia. È finito soltanto quando i rapporti tra Albania e Jugoslavia si sono malezzati. Quando cioè l’Albania, uscita dall’isolamento, ha cominciato a guardare con meno diffidenza il mondo esterno, pur restando fedele alle parole del suo capo, Enver Hoxha, partigiano intransigente del comunismo di sicura fede cinese, il quale «è la paura che fa la guardia alla vigna».
Gli albanesi hanno preso evidentemente alla lettera le sue parole. Infatti sono sospettosi, non ti sorridono mai, anche se la curiosità traspare dai loro volti, e si lasciano avvicinare raramente: anche se cominciano a frequentare gli alberghi di Tirana e di Durazzo. Le loro città sono cupi silenzi senza automobili ma piene di pedoni e di carretti di verdura tirati da asini; è difficilissimo trovare una bevanda che non sia analcolica, e i pochi alberghi offrono ai clienti più slogan che merci.
Risolto, dopo anni di isolamento, ad adottare con prudenza le sue frontiere, l’Albania incoraggia un turismo di coloro che vogliono conoscere il socialismo “crudo” in cambio di un po’ di valuta pregiata: a differenza della Jugoslavia, è poco disposta ad accettare, e anche a tollerare, le mode occidentali. All’aeroporto di Tirana, una costruzione nuova accanto al lato dell’unica pista, il personale comunica e avverte che l’Albania Socialista è contraria alle opinioni e alle minigonne, oltre che, naturalmente, alle scollature troppo profonde. È accaduto che una hostess svedese, uscita dal suo albergo in minigonna, sia stata insultata (v’è chi dice che le abbiano anche tirato dei sassi) soltanto perché non ha rispettato le regole.
Dall’Italia oggi si può andare in Albania con un’organizzazione internazionale che effettua partenze da Milano, da Roma e da Bari. Il viaggio costa sulle 140 mila lire la settimana e consente la visita di Tirana, Durazzo e 20 piccole e caratteristiche località. Ci si sposta su un pulmino di costruzione cinese, attraverso un paesaggio che ha come comune slogan tipico “viva il compagno Enver” e “gloria ai parenti dei lavoratori”. Il paesaggio risulta così monotono, ma rappresenta l’altra faccia di un Paese che Hoxha mostra oggi con orgoglio dopo venticinque anni di governo quasi assoluto: un Paese uscito dalla povertà e dall’arretratezza, che ha cibo e vestiti per tutti i due milioni di abitanti, case, e medicinali gratis. Hoxha vanta anche altri traguardi: l’alfabetizzazione (prima della guerra erano analfabeti il 90 per cento, ma oggi vi sono molte scuole e a Tirana c’è l’università); canali di irrigazione che permettono alle cooperative di coltivare ogni metro di terra arabile; centrali elettriche e, soprattutto, una moderna ferrovia che collega i principali centri.



Lo Stato albanese, che ha come nemico il revisionismo krusceviano, considera Stalin sacro. Questo busto si trova a Korçë.

Un impegno così statalizzato ha imposto all’Albania una pesante dipendenza economica prima dall’Unione Sovietica, poi dalla Cina. Così in Albania vengono importati dall’Estremo Oriente i fiammiferi, le lampade e le biciclette che, in mancanza di elettrodomestici (inaccessibili a livello di privati), rarità di automobili (inesistenti a livello di privati), rappresentano l’oggetto di lusso più ricorrente.
Una bicicletta cinese rossa resta ancora un sogno lontano nell’universo consumistico albanese: costa quanto un mese di paga di un operaio, circa 600 lek, 40 mila lire, e questo basta a dare un’idea dello standard di vita non certo paragonabile a quello dell’Europa occidentale, anche se per gli albanesi è già tanto. Si consolano pensando che con l’impiego dello Stato meglio che pagato, circa 140 mila lire all’anno, si riesce a ottenere da Hoxha una delle mille abitazioni costruite dallo Stato a 150 lek al metro quadrato, ossia a 4.500 lire il metro.

A Tirana: uomini al caffè, donne in coda


La sera, gli albanesi amano sedersi all’aperto davanti ai caffè e bere tè. In tutto il Paese è molto difficile trovare bevande che non siano analcoliche.


Un gruppo di donne di Tirana davanti a un chiosco che vende frutta.

Nonostante il bassissimo tenore di vita, gli albanesi hanno fatto giganteschi passi verso il benessere: il cibo è sufficiente per tutti, così come gli abiti. Le case, costruite dallo Stato, costano dalle 1.500 alle 4.500 lire di affitto al mese, le medicine sono gratuite. Le tasse sono state completamente abolite e l’erario viene rifornito dalle industrie, dalle cooperative e dagli aiuti dei cinesi.

Millecinquecento cinesi trattati "alla pari"

Con la sua presenza, anche se discreta, la Cina condiziona fortemente tutta l’economia e la vita albanese.


Una bicicletta cinese, che è l’oggetto di lusso maggiormente desiderato nel Paese. Il suo prezzo si aggira su una mensilità di salario di un operaio, circa 40 mila lire.

Sopra: un gruppo di tecnici cinesi. 

I cinesi in Albania sono millecinquecento e vivono come gli albanesi, con gli stessi salari e negli stessi alloggi. Agli albanesi tutto ciò fa molto piacere perché ricordano il “periodo sovietico” quando i sovietici pretendevano i migliori alloggi e guadagnavano otto volte più dei loro colleghi locali.

Un treno di fabbricazione cinese. 
La ferrovia è l’orgoglio di Enver Hoxha, il leader albanese. Prima di lui non c’era, adesso la rete collega le maggiori città. L’Albania importa dalla Cina anche fiammiferi e lampade (generi di lusso).

 La spiaggia di Durazzo, che è stata riservata esclusivamente ai turisti stranieri ancora poco numerosi.

L’Albania è un paese di pedoni, le auto vi sono scarssissime, comunque inaccessibili alla popolazione come anche gli elettrodomestici più elementary. Una piazza di Tirana.




Segue riflessione dell’autore

Quell’Albania vista da fuori. Ma vissuta da dentro.

Oggi riportiamo in vita un prezioso reportage fotografico pubblicato sulla Domenica del Corriere nel settembre del 1972. Da tempo sono alla ricerca di articoli stranieri che parlano dell’Albania nei più diversi periodi storici, con l’intento di comprendere come il nostro paese sia stato percepito dagli occhi esterni, dai giornalisti e dai viaggiatori che, seppur per breve tempo, hanno avuto accesso a una realtà profondamente chiusa come quella albanese.
Il pezzo che presento oggi è lo scatto di un’Albania all’inizio degli anni ’70 che, nonostante l’isolamento, non veniva descritta dagli osservatori stranieri come un paese in crisi profonda. Dopo la rottura definitiva con l’Unione Sovietica nel 1968, il regime albanese aveva trovato un nuovo partner ideologico nella Cina maoista. I cinesi erano, di fatto, gli unici stranieri a circolare liberamente sul territorio nazionale.
Negli occhi del giornalista e del fotografo, l’Albania appare come un paese fortemente patriarcale, dove gli uomini trascorrono le giornate nei caffè e le donne passano ore in fila per fare la spesa. Dove il sogno proibito è una bicicletta cinese e le automobili private non esistono. Alcuni di questi elementi corrispondono alla realtà: le auto erano davvero rarissime, e le biciclette – importate quasi esclusivamente dalla Cina – erano un bene prezioso. Ma più che un sogno, rappresentavano uno strumento di mobilità essenziale per la vita quotidiana dei lavoratori.
La mancanza di automobili non era vissuta come un problema: il trasporto pubblico era efficiente e capillare, e l’infrastruttura del paese non era nemmeno concepita per un traffico automobilistico diffuso. Quanto all’immagine stereotipata di uomini oziosi e donne sacrificate, occorre chiarire che la società albanese, pur conservando strutture patriarcali, era regolata da organismi di controllo comunitario, come i “consigli di quartiere”, che vigilavano attivamente sul comportamento sociale. Non era permesso bighellonare durante l’orario di lavoro né tantomeno maltrattare la famiglia: c’erano norme precise, e chi le infrangeva veniva richiamato all’ordine.
Ovviamente, nei pomeriggi dopo il lavoro o la domenica – giorno di riposo – era naturale che gli uomini si ritrovassero tra loro, e che le donne si occupassero della casa e dei figli. Ma questi momenti non definivano l’intero assetto sociale del paese, come può apparire a chi osservava da fuori senza conoscere davvero le dinamiche interne.
L’Albania comunista, così chiusa e impenetrabile, suscitava inevitabilmente curiosità. E se è vero che molti cronisti stranieri si sforzavano di comprendere, la mancanza di una reale conoscenza della mentalità e dell’organizzazione sociale portava spesso a interpretazioni imprecise o affrettate. Nonostante ciò, questi reportage, pur con le loro ingenuità e distorsioni, rappresentano testimonianze preziose. Sono documenti utili non solo per gli studiosi, ma anche per i curiosi e, soprattutto, per gli albanesi stessi: perché ci aiutano a conoscere e comprendere uno dei periodi più duri e oscuri della nostra storia recente.

Elton A. Varfi – Cronache Albanesi

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