Parte I


Quando sentì che stavano piangendo la morte del Re, Lek (Alessandro) Dukagjini, principe epirota, uscì correndo in piazza e con il viso scuro per il dolore e con la voce smorzata, strappandosi la barba e le vesti disse: 
“Venite, venite in fretta tutti, o principi arbëresh[1]! Oggi le porte dell’Epiro e della Macedonia sono a pezzi, oggi sono caduti i muri e le nostre fortificazioni, oggi si è persa tutta la nostra forza, oggi sono stati rovesciati i nostri troni e il nostro potere; oggi si è spenta, con quest’uomo, ogni speranza nostra”.[2]
È proprio da qui che si deve raccontare questa storia, dalla fine. Da queste parole che suonano cosi drammaticamente profetiche. Non è mai successo che la morte di un Re possa aver causato nella storia di un popolo, conseguenze tanto nefaste. 
Dopo la morte del condottiero, gli albanesi continuarono la loro resistenza ancora per un altro secolo. L’alleato più fedele è stato il terreno montuoso dell’Albania. Gli albanesi che non accettarono la conversione all’islam, si ritirarono proprio in queste montagne e organizzarono la resistenza, ma alla fine furono sconfitti dagli Ottomani. L’odio che provavano gli Ottomani verso il popolo albanese, sfociò in una feroce repressione nei loro confronti, tanto da provocare un esodo di massa della comunità etnica albanese, da essere ricordato come uno degli eventi più tragici subìto dalla nazione. 
I turchi, durante l’invasione, distrussero le opere d'arte, negarono la lingua albanese e addirittura proibirono l'insegnamento della stessa. La “Sublime Porta” era tollerante con i sudditi non islamici; infatti, consentiva ai Greci l’insegnamento della loro lingua. Tuttavia, il trattamento riservato ai sudditi albanesi, anche se di religione musulmana, era diverso. La Turchia aveva, infatti, vietato l’apertura di scuole albanesi e persino l’uso ufficiale della lingua. Bruciarono i libri e i documenti scritti in lingua originale, tanto che oggi i numerosi studiosi alla ricerca di tracce riconducibili ai documenti o ai libri albanesi sono obbligati a effettuare laboriose ricerche negli archivi stranieri. 
Con il grande esodo se ne andarono molte delle personalità importanti ed influenti dell’epoca, soprattutto coloro che vennero definiti “intellighenzia”, i quali misero al servizio di un altro paese la propria cultura, il talento e il sapere; infatti in quel periodo si riscontrano nomi illustri di albanesi nelle università di Padova e di Bologna. 


La nascita


Il nome dei Kastrioti appare per la prima volta nel 1363, proprio in questo anno un Kastrioti è ricordato come capitano di Kanina. Nel 1389 i principi di questa casa furono eguali in dignità con i primi principi dell’Albania, poiché Giorgio Kastriota prese parte al consiglio di guerra innanzi alla battaglia di Kosovo. Nel 1407 di Giovanni (Gjon) Kastrioti si fa menzione negli archivi veneziani. Secondo le informazioni assunte da Barlezio, Giovanni Kastriota apparteneva a un’antica casa di Mati. Anche Giorgio (Gjergj) Kastrioti nacque nel 1405 a Mati. Suo padre, Giovanni Kastrioti, era Signore a capo di un vasto territorio tutelato da fortezze inespugnabili. Croia, la capitale, Petrella nei pressi di Tirana, Petralba e Stellusio, sul Mati e Sfetigrado[3] nella Dibra superiore. Dal 1407 al 1430, nonostante la pressione delle forze musulmane, in questi luoghi fortificati si prolungò la lotta fra il Sultano e il principe. Giovanni prese in sposa la principessa Voisava, figlia di un altro illustre capo albanese, il principe di Pollongo, regione posizionata tra Gostivar e Uskub. Il Barlezio disse che gli abitanti erano bulgari, ma i principi potevano essere albanesi sin dal tempo dei Balscia. Giovanni Kastriota ebbe da sua moglie ben nove figli: cinque femmine, Mara, Jella, Angelina, Vlaika e Mamiza, e quattro maschi, Stanisio, Reposio, Costantino e Giorgio. Le prime quattro figlie andarono spose a principi alleati: Mara a Stefano Cernovicb, principe del Monte Nero; Vlaica a Gino Musacchio, Angelina a Vladano Arianita Thopia Conmeno Golemi, principe di Cermenica e fratello di Arianita di Kanina; Jella a Paolo Stresio Balscia, principe della regione posta tra Croia e Alessio. Mamiza poi andò sposa a Carlo Musacchio Thopia, come Scanderbeg fece ritorno in Albania. 
Si racconta di quando la madre di Giorgio era gravida di lui, sognando di partorire un dragone talmente enorme da coprire, con il proprio corpo, tutto l'Epiro, la testa si allungava fino al confine con i turchi, i quali venivano divorati con le fauci sanguinanti; invece la coda la teneva immersa in mare, al confine con i territori cristiani, soprattutto con la repubblica di Venezia. 
Appena raccontato il sogno, suo padre Giovanni si rallegrò esprimendo una facile interpretazione. Profetizzò che Voisava avrebbe dato alla luce un bambino che sarebbe diventato un grande uomo, riconosciuto per le sue opere e le sue gesta in guerra. Sarebbe stato il nemico più feroce dei turchi ma anche il suo comandante più rinomato. Protettore del cristianesimo, e rispettoso verso la repubblica Veneziana. 
Quando nacque il bambino, si vide sul suo braccio destro una voglia a forma di spada come se qualcuno lo avesse dipinto. 
Queste leggende riportate da Marin Barlezio nella sua opera sulla vita e le gesta dell'eroe, hanno alimentato ancora di più la fama dello stesso dandogli un’aurea leggendaria e misteriosa. Qui però occorre fare un appunto necessario...



Skanderbeg. 
Dall’opera: M. Barletius – Historia de vita et gestis Scanderbegi Epirotarum principis – Roma 1506. 

Tutti gli storici che si occuparono di Giorgio Castriota Skanderbeg, ottennero la maggior parte delle notizie, o direttamente o da altre fonti, in merito a due opere considerate fino a oggi fondamentali. M. Barlezious, Historia de vita et gestis Scanderbegi Epirotarum principis, Roma 1506, e Giammaria Biemmi, Historia di Giorgio Castrioto detto Scander – Begh, Brescia 1742. 
Barlezio, contemporaneo eroe albanese e spettatore di molti avvenimenti da lui descritti, era ritenuto generalmente una fonte di assoluta veridicità e imparzialità. Gli storici attribuirono la medesima reputazione anche al Biemmi. Quest’ultimo asseriva di aver orientato la sua opera su di una ipotetica Historia Scanderbegi edita per quandem Albanensem, sulla base di un libro scritto da un soldato di Antivari, e pubblicata, a suo dire, a Venezia nel 1480, nella quale affermava di aver combattuto con Skanderbeg. Uno storico romeno, Francesco Pall, dimostrò[4] che Biemmi era un falsario che inventò l’esistenza della cronaca dell’Antivarense per redigere il suo libro. Biemmi viene citato sia da Fan S. Noli, nella sua Storia di Scanderbeg, sia da Barlezio, nella prefazione della sua opera in versione albanese, come una fonte veritiera. 
La guerra tra Giovanni Kastrioti e i Turchi come abbiamo già scritto, si protrasse dal 1407 al 1430, e, Giovanni Kastrioti fu respinto e costretto, per ben tre volte dai Turchi, a una pace difficile e onerosa. Giovanni Kastrioti dovette consegnare al Sultano, a conferma della sua remissività, i suoi quattro figli con l’obbligo, da parte di Murat II, di farli educare secondo i canoni della fede cristiana e di metterne uno in libertà, dopo la morte di Giovanni, per permettergli di occupare il seggio degli avi; ma di contro dovette cedergli la fortezza di Sfetigrado, la Dibra inferiore e superiore, tutto ciò a garanzia di una condizione di assoluta sicurezza per la popolazione. 
Successivamente strinse un’alleanza difensiva e offensiva rispetto alla quale divenne suo obbligo mandare un esercito al Sultano in ogni guerra che questi avesse intrapreso. Dunque, dovette riconoscere Murat II come suo alto Signore con l’obbligo di pagare annualmente un tributo in segno della sua sudditanza.


Nella corte del Sultano


Era il 1421, quando il piccolo Giorgio Kastrioti lasciò la casa paterna e seguì i fratelli alla corte del Sultano. Quando arrivò alla corte turca di Adrianopoli, il Sultano, violando i patti, lo obbligò a convertirsi alla religione islamica, cambiandogli perfino il nome. Cosi Giorgio diventò Skander bey che in lingua turca significa il principe Alessandro.
Rispetto ai principi presenti nella corte di Murat II, Kastrioti riuscì a esprimere le proprie attitudini condividendo con gli altri la condizione di ostaggio. La sua bellezza, la grazia e la forza gli resero la vita facile. Mentre gli altri ostaggi, erano soggetti a morire, - o per cause naturali e per avvelenamento - il fanciullo albanese venne rispettato come ogni altro principe della corte islamica.



Murat II
Ignoto. Galleria degli Uffizi, Firenze. (Foto Alinari). Dall’opera: Scanderbeg, Alessandro Cutolo, Milano 1940. 

Imparò a parlare la lingua turca, araba, greca, slava e italiana. Studiò l’arte della guerra con maestri dotti ed esperti. Ogni gioco d’armi gli divenne famigliare, ogni cavallo diventava docile ai suoi comandi. Nel maneggiare la spada, l’arco, la lancia, in breve tempo non vi fu nessuno, nella corte, al suo pari. Il giovane Skander, scalpitava, non gli bastava più lottare per gioco. Sognava lotte, guerre, battaglie da vincere. Non gli pesava il pensiero che, benchè nato cristiano e divenuto musulmano, dovesse sostenere la mezzaluna anche contro i cristiani. Giorgio Kastrioti chiedeva al Sultano, la vera guerra. Murat II era compiacente di tanto coraggio, ma frenava con opportuni dinieghi quel fremito prepotente. Il Sultano Murat II predilegeva Skanderbeg e non trascurava alcuna occasione per manifestargli la sua benevolenza. 
Ma non potè contenerlo a lungo. 
Impotente davanti a tanta energia, convinto di poterlo sfruttare per la gloria dell’impero, Murat II nominò il suo ostaggio sangiacco, (primo grado militare allora dopo quello di Pascià), e appena diventato maggiorenne lo mandò a combattere in Asia e in Europa, uscendone glorioso. Sembrò folle affidare l’esercito a un giovane, ma i fatti smentirono ogni cupa previsione. Durante l’assedio di una fortezza dell’Anatolia, alla stessa stregua di Alessandro Magno in India, salì sul muro, alzandovi il vessillo ed entrando primo nella città. II Sultano Murat II gli aumentò il grado affidandogli il comando di spedizioni più importanti. In breve tempo, i Mongoli furono travolti dai Turchi di Skanderbeg che ritornava sempre vincitore portando con sé prigionieri e innumerevoli bottini di guerra. La sua fama cresceva di giorno in giorno, l’esercito lo amava, i compagni lo prendevano a modello. Non vi fu impresa di guerra di una certa importanza, in cui non partecipasse Skanderbeg. Si batté in Oriente, contro i Greci, contro i Magiari, in pochi anni il suo nome fu caro ai Musulmani e temuto dai loro nemici. 
Nel 1439 il Senato di Ragusa, nel contesto delle delibere, nominò i figli di Giovanni Kastrioti come cittadini onorari, seppur convertiti all’Islam, tutto ciò fu possibile grazie all’intervento del loro padre che assicurò l’appartenenza al Cristianesimo dei propri figli benché si fossero convertiti all’islam e che gli stessi aspettavano il momento opportuno per fuggire da Adrianopoli e ritornare tra la loro gente e la loro fede.
Nacque un’animata discussione. Se i primi tre figli di Giovanni Kastrioti, accettarono come assoluta necessità la conversione all’Islam, vivendo ad Adrianopoli, si poteva dire lo stesso per Skanderbeg che si era guadagnato fama di temuto guerriero servendo l’Islam, e aveva seminato il terrore e versato fiumi di sangue anche negli stati cristiani dei Balcani?
Poteva ritenersi buon cristiano colui che Murat II reputava uno dei suoi più valorosi ufficiali, uno tra gli interpreti più fedeli del suo pensiero, tra gli esecutori più pronti degli suoi ordini?
Il nome di Giorgio Kastrioti fu cancellato dal registro dei cittadini onorari. Il Senato Ragusano considerò il principe albanese come il più feroce soldato dell’Islam. 
Nel frattempo, mentre Giovanni Kastrioti invecchiava, due dei suoi figli morirono in circostanze poco chiare. Probabilmente furono avvelenati per eliminare gli eredi imbarazzanti del principato di Mati. Un altro, divenuto frate, si ritirò sul monte Sinai, e il quarto che si era totalmente convertito all’Islam, azzardò ancora una volta la ribellione facendo un patto con Giorgio Arianita, ma ricevendo un secco rifiuto da Adrianopoli, alle condizioni onorevoli di pace da lui proposte, si accordò con Arianita e con i capi locali, li istigò contro l’Islam e scacciò le guarnigioni turche. Ma la notizia dell’insurrezione non turbò affatto Murat II, il quale diede ordine ad Alì pascià Evrenos di muoversi col proprio esercito e di sottomettere i ribelli. Le forze del pascià, combatterono invano contro le truppe comandate da Arianita le quali difesero la posizione e con estremo vantaggio obbligarono i turchi a una fuga disordinata. Alì pascià Evrenos trovò salvezza lungo il mar Jonio, avvalendosi solo di pochi uomini.
In Europa Giorgio Arianita fu riconosciuto come il difensore del Cristianesimo, ma la reazione del Sultano si mostrò fulminea e molto spietata. Le città vennero messe a ferro e fuoco, gli abitanti trucidati. L’Europa capì che le vittorie di Giorgio Arianita furono sublimi episodi di valore individuale e che ci voleva ben altro per tenere lontano il pericolo dell’Islam dall’Europa. 
L’una dopo l’altra le città che si erano ribellate erano state riprese. Le fortificazioni che sembravano invalicabili furono espugnate dalle orde turche, distrutti i paesi che ancora mantenevano acceso il fuoco della ribellione. Il terrore dilagò ovunque rendendo vano ogni ideale di indipendenza.



Disegno tratto dal libro di M. Barlezio

Giovanni Kastrioti morì nel 1442, Murat II venendo meno ai patti stipulati nel 1421, non permise a Skanderbeg di subentrare al proprio padre come erede diretto. Infatti, appena saputa la morte di Giovanni Kastrioti un esercito turco, comandato dal rinnegato Hassan bey Verzesda, entrò in territorio albanese, per ordine del Sultano, e ne prese possesso occupando soprattutto Croia, Lisso e i luoghi che erano sotto il dominio diretto dei Kastrioti; tale impresa riuscì perfettamente poiché gli Albanesi ebbero la certezza che Skanderbeg, unico superstite dei Kastrioti, fosse venuto in possesso dei domini paterni e dunque non erano preparati per la difesa. 
In oltre relegò in un remoto angolo dell’Albania, la madre di Giorgio Kastrioti, Voisava e la sorella Mamiza ottenendo in concessione dal Sultano un piccolo appezzamento di terreno poco sufficiente per garantire loro l’esistenza. 
Anche in questa occasione, il Sultano volle mettere a prova la fedeltà di Skanderbeg e nello stesso momento che ebbe certezza che le sue truppe avevano occupato l’Albania ordinò, al suo miglior soldato, di metterlo nelle condizioni di ottenere ciò che gli spettava di diritto; ma Skanderbeg, informato per tempo degli avvenimenti accaduti, poté giocare d’astuzia col Sultano e con manifeste azioni di falso servilismo e di fedeltà, ma che apparivano comunque sincere, declinò la generosa offerta, dichiarando altamente che unico suo desiderio e onore ambito fu quello di servire il Sultano, alla cui prosperità e potenza avrebbe continuato a dedicare tutte le sue forze, sperando che il suo Sovrano si sarebbe degnato di annoverarlo fra i suoi più devoti servitori, condizione che lo avrebbe compensato molto di più rispetto al possesso degli domini ereditati.
Quale fu la reale causa per cui il Sultano impedì a Giorgio Kastrioti di ritornare in Patria? Temeva forse che una volta tornato, il suo sottoposto avrebbe ripreso la guerra iniziata da Giorgio Arianita proprio contro di lui?
Murat II non comprese, pur avvalendosi di una spiccata e astuta mentalità da orientale, che l’assegnare ai Kastrioti un feudo sacro in virtù di vecchi retaggi, sarebbe stata la causa che avrebbe orientato in tutt’altra direzione un guerriero come il prode Skanderbeg, noto all’Islam. 
Quando giunse la notizia che la madre non fosse sopravvissuta al sopruso fisico e morale subìto dal rinnegato Hassan bey, architettato da Murat II, Giorgio Kastrioti attese, con impazienza, il momento opportuno per liberarsi dal turco e di vivere finalmente la propria vera esistenza. 
In quel preciso momento si configurò un sottile gioco d’astuzia tra Murat II e il suo ostaggio. L'uno temeva le possibili reazioni del principe albanese e ne spiava ogni gesto, lo interrogava per scrutarne i più reconditi pensieri, l’altro stava molto attento a nascondere i veri moti del suo animo ben conoscendo quale sorte gli sarebbe stata riservata se il sultano avesse avuto il sospetto del suo risentimento. La gloria conquistata in tante battaglie non sarebbe servita a evitargli una terribile fine. 
Mentre molti principi albanesi, prestando i loro servigi ai musulmani, non dimenticarono mai la propria Patria, tramavano la ripresa della condizione di libertà e di indipendenza, senza per questo nasconderne il desiderio e le loro intenzioni, pagando spesso con la vita, Giorgio Kastrioti celava, con un’apparente calma attraverso una falsa devozione, un odio profondo che ogni giorno ingigantiva sempre di più il suo cuore.
Assopiva le diffidenze del Sultano in attesa del momento propizio per dare esecuzione al suo piano ben congegnato.
Nella mente del giovane albanese andava man mano maturando il conseguimento del grandioso disegno volto a sottrarre la propria Patria al dominio musulmano e di renderla indipendente.
L’occasione favorevole gli si presentò nel 1443. 



Elton Varfi




Bibliografia


Historia e Skënderbeut, Marin Barleti. Tirana 1968.
L’Albania ed il Principe Scanderbeg, F. Cuniberti, Roux Frassati e C° Editori, Torino 1898.
Storia di Scanderbeg, Fan S. Noli, (versione di Francesco Argondizza),Roma 1924.
Scanderbeg, Alessandro Cutolo, Milano 1940.


[1] L’Albania si chiamava Arbëria ai tempi, e i suoi abitanti si chiamavano arbëresh.
[2] Historia e Skënderbeut, Marin Barleti. Tirana 1968. Traduzione libera di Elton Varfi .
[3] Questa fortezza è posta sul versante destro del Drin Nero, ad est di Dibra Alta, parecchio distante dal fiume, di cui però domina il corso nel tratto fra le due Dibre.
[4] Une nouvelle historie de Scanderbeg – Remarque sur le livre de M. Gegay, in Revue historique du Sud-Est européen, an. XIV, n. 10, 12, Bucarest 1937.

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