Parte VI


Il trattato di Gaeta

Skanderbeg, benché compiaciuto per le vittorie conseguite, aveva riscosso anche una dura lezione. Oramai era palesemente il signore dell’Albania, soprattutto dopo l’unione con la figlia dell’Arianita, l’unico capo che potesse opporsi alla sua egemonia nel territorio nazionale. Il territorio da egli difeso a spada tratta, poteva continuare a lottare così a lungo contro il Turco? Poteva vivere e prosperare senza l’aiuto di una grande potenza che ne appoggiasse le rivendicazioni, i diritti e ne sostenesse la vita?
Scarsa agricoltura, la pastorizia sufficiente solo per poche tribù, i boschi che si estendevano sulle montagne si mostrarono inadatti a qualsiasi forma di coltivazione. L’assenza quasi assoluta del commercio e, principalmente, la divisione del territorio fra tante famiglie feudali, rendevano assai precaria l’esistenza della nazione.
L’Albania che viveva in virtù dei propri capi che dipendevano dall’egida di questa o di quella potenza mediterranea.
Sin dalla metà del XII secolo, i Principi albanesi avevano creduto di trovare il proprio capo in Stefan Dushan tanto da aiutarlo a conquistare gran parte della Macedonia. Ma subito dopo, gli albanesi insofferenti del giogo di Sefan Dushan, serbo di nascita e straniero di abitudini, lo combatterono aspramente, tanto da indurlo a rinunciare al comando su di loro. Ma prima cedette a Venezia molte di quelle terre sulle quali comandava ed altre le donò ai signori locali, ponendo cosi l’Albania nella sfera degli interessi della Repubblica da un lato, in balìa del più frammentario feudalismo dall’altro.
Tutti i Principi albanesi manifestarono la volontà di comando, primeggiando tra loro.
Durante tutto l’arco dell’anno 300, i Thopia, si erano appoggiati agli Agioini di Napoli con la speranza di primeggiare sulle altre famiglie, i Dukagini, nemici di Venezia e sempre in lotta con i Kastrioti, i Balcha divenuti, dopo anni di lotta con Venezia, vassalli dei Kastrioti, gli Zaccharia, i Konina, gli Spanò i Musacchi, che dopo una politica incerta avevano deciso di conseguire il benessere dell’Albania tralasciando, di fatto, gli interessi personali. Gli Arianiti divenuti, solo dopo il matrimonio di una loro donna, con Giorgio Kastrioti sostenitori leali di quest’ultimo.
Disgregare quell’embrione di organismo statale, che rappresentava la lega di Alessio, rientrava nelle linee politiche di Venezia, preoccupata di ostacolare qualsiasi potenza si fosse saldamente insediata sull’Adriatico. E mentre vari signori di ristrettissimi territori accolsero, in ogni modo, gli aiuti dalla Serenissima, Skanderbeg che cercava di riunire quei gruppi scomposti e di creare con essi un organismo, sapeva che Venezia gli sarebbe stata ostile in qualsiasi occasione.
Sarebbe stato alquanto imprudente da parte di Giorgio Kastrioti sperare ancora che il pericolo di un attacco turco avesse spinto Venezia ad uscire dalla sua originaria linea di condotta.
Cosicché egli, convinto che l’Albania non potesse vivere se non sotto la protezione di un grande Stato amico, si rivolse all’unico sovrano che mirava a un obiettivo proteso verso l’Oriente, Alfonso d’Aragona che, nel momento del pericolo poteva essere un alleato sicuro e deciso.


Alfonso d'Aragona. Arco di Trionfo in Castelnuovo (Napoli). Foto Alinari. 

Alfonso d’Aragona, più di tutti i principi suoi contemporanei, non solo capiva cosa fosse il pericolo turco, ma nutriva in cuor proprio aspirazioni ereditate da quei Re ai quali era successo sul trono di Napoli. E queste aspirazioni lo portarono a considerare l’Oriente e Costantinopoli in particolare, come terra da poter conquistare.
Il Sultano non rappresentava un pericolo concreto per gli interessi dei veneziani in Oriente, anzi, aiutandone i traffici, rispettandone il naviglio, incoraggiandone il commercio, sembrava volesse sancire uno stato di fatto nel quale le due potenze avevano trovato il modus vivendi.
Allora a chi se non ad Alfonso d’Aragona, doveva rivolgersi, quindi Giorgio Kastrioti, quando Venezia rifiutò di aiutarlo nella lotta contro Il Sultano?
Nemico, quanto gli albanesi e forse anche più di loro dell’Islam, Alfonso d’Aragona diventava il protettore naturale di Giorgio Kastrioti. Trascinava, è vero, gli albanesi in una politica pericolosa che li metteva contro non solo al turco, ma anche ai veneziani, ma dava loro l’appoggio di un grande regno, facendo sperare che il Papa ed i sovrani di Spagna, indifferenti alle invocazioni di Skanderbeg, non lo sarebbero stati più, quando la lotta fosse stato condotta da un uomo reputato, a pieno merito, il Principe più rappresentativo fra i potenti italiani.
Nel marzo del 1451 Stefano, vescovo di Croia, e il domenicano Nicola de Berguzzi, raggiungevano la corte di Napoli come ambasciatori di Skanderbeg. Il capo albanese temeva che la ripresa delle ostilità da parte dei turchi fosse vicina, sentiva che da solo non avrebbe più potuto resistere ad un secondo attacco, quindi pose se stesso e la propria gente sotto la protezione del gran Re.
Non si trattava stavolta, di un semplice trattato di alleanza fra due potenze. Giorgio Kastrioti rinunciava al sogno di dominare da solo su tutta l’Albania, e non chiedeva più l’aiuto al Re Alfonso, come da pari a pari, ma gli riconosceva la suprema autorità divenuta per l’Albania una ragione di vita.
Nel trattato concluso e firmato a Gaeta, il 26 marzo 1451, gli inviati a Giorgio Kastrioti offrivano a nome del loro signore, e di quanti ad essi ubbidivano, Croia ed altri possessi minori, purchè, il Re di Napoli avesse inviato le sue truppe a difendere la regione. Si impegnavano inoltre di riconoscere la suprema signoria del Re di Napoli su tutte le conquiste che Skanderbeg avesse compiuto con il suo aiuto, assicuravano che Skanderbeg cacciato fora de li mani de li Turchi sarebbe venuto personalmente nel luogo fissato da Alfonso a fargli omaggio di fedeltà e di sottomissione. Dal canto suo il Re di Napoli si obbligava, non solo ad inviare i soldati necessari all’azione, ma a rispettare i privilegi elargiti a Croia e quelli dei quali già godevano i signori che si fossero sottomessi a lui.
Non si trattava di una vera e propria cessione dei poteri, perché il trattato non toccava le prerogative di governo di Giorgio Kastrioti e degli altri capi albanesi, ma l’accordo di Gaeta metteva i due contraenti su due diversi piani ponendo, decisamente, la politica albanese alle dipendenza del Re di Napoli. Con questi patti e altri pressoché simili, siglati il 5 febbraio 1451 con Demetrio Paleologo despota di Morea, Alfonso assicurava una solida base, al di là dell’Adriatico che gli consentiva, per il momento, un deciso predominio nel bacino orientale del Mediterraneo spianandogli in seguito la strada verso Costantinopoli che egli si augurava di liberare dalla minaccia turca, non perché comandassero i Paleologhi, ma per comandare proprio lui su tutto l’Oriente mediterraneo, ai danni di Venezia.

La caduta di Costantinopoli

Gli effetti del trattato con i napoletani si rivelarono subito. Gli ambasciatori albanesi che si presentarono dinanzi al Papa Nicolo V, ritornarono se non con aiuti materiali, almeno con una bolla di indulgenza plenaria per tutti i cristiani che fossero andati a combattere sotto le insegne albanesi.
Venezia, cui era chiaro che il trattato di Gaeta era diretto, non solo contro gli ottomani, ma anche contro la sua supremazia in Oriente, mostrava di aver capito il gioco del Re di Napoli quando, con un lieve pretesto, stabilì di non pagare più la pensione alla quale aveva diritto Giorgio Kastrioti per la pace del 1448. Il 7 giugno anche Giorgio Arianita riconobbe la supremazia del Re di Napoli sulle sue terre.
Nel maggio del 1441 Bernardo Vaquer, partì da Napoli per l’Albania, alla testa di un nucleo di uomini, con l’ordine di portare a Skanderbeg viveri ed armi e di curare la riedificazione delle mura di Croia. Gli era stato chiesto anche di fornire un’esatta descrizione geografica del Paese, delle sue risorse e delle sue possibilità.
In Albania non tutti vedevano di buon occhio l’arrivo del delegato napoletano. Le vecchie discordie tra Giorgio Kastrioti ed alcune antiche famiglie feudatarie, discordie volutamente mantenute vive da Venezia che tanto rappresentavano quel senso tipico negli albanesi di avversione allo straniero, soprattutto a colui che fosse venuto in veste di dominatore, rendevano tutt’altro che facile il compito a Bernardo Vaquer.
Skanderbeg, (particolare). Dall’opera: M. Barletius – Historia de vita et gestis Scanderbegi Epirotarum principis – Roma 1506.

L’ostilità dei suoi compatrioti, la sperimentò lo stesso Giorgio Kastrioti, quando convocò la lega dei Principi proponendo loro di attaccare Sfetigrado e Berat. Nonostante dimostrò ai partecipanti che l’esercito albanese si fosse ingrandito grazie ai volontari e sostenuto con i denari del Papa e del Re di Napoli, mostrandosi forte e adatto alla guerra, i Principi rifiutarono. Ma se questa opposizione era latente e si rappresentava solo per boicottare il progetto di Giorgio Kastrioti, l’avversione di alcuni signori del casato dei Dukagini si mostrò apertamente.
Molti di loro, da tempo al soldo di Venezia e legati alla sua politica, nutrivano un odio tale nei confronti di Skanderbeg da mettersi apertamente in contatto con il Sultano seguendo, anche in questo, la volontà della serenissima che alla supremazia napoletana nei Balcani preferiva quella dell’Islam. Venuto a conoscenza di questi fatti, che dividevano l’Albania in due contrapposti partiti politici favorevoli, l’uno a Venezia, l’altro a Giorgio Kastrioti, Alfonso d’Aragona richiese l’aiuto del Papa, perché una parte degli albanesi non osasse, per l’odio verso Skanderbeg, appoggiare l’infedele.
L’Albania non ubbidiva più in modo unanime alla parola del suo grande capo, un cieco campanilismo impediva ad alcuni di comprendere quanto fine senso politico ci fosse nell’opera di Giorgio Kastrioti, che si era astutamente, posto nella scia dell’unico Principe che interpretasse meglio i problemi orientali. Per gli albanesi la sua protezione rappresentava la vera garanzia dell’esistenza e della vittoria finale sul Turco.
Alfonso d’Aragona curava con tanta energia il rapporto con suoi alleati. Mandava nuovi contingenti di truppe e doni a Giorgio Kastrioti, nonché soccorsi alle popolazioni. Non dimenticava di certo che sulla politica albanese influiva molto l’atteggiamento di Venezia. I Dukagini ad esempio, sui quali nulla aveva potuto la gravissima sanzione spirituale minacciata dal papa Nicolò V contro di loro, non avrebbero osato mettersi in contrasto apertamente con Skanderbeg, se non avessero avuto l’appoggio della Serenissima.
Alfonso d’Aragona decise di affrontare il Doge, anche sulla base dell’inaudito comportamento dei suoi sottoposti, sia cristiani sia albanesi, che si alleavano con l’infedele, nemico della loro terra, mentre Giorgio Kastrioti, appoggiato dai napoletani si preparava nuovamente per affrontarlo.
Maometto II, troppo impegnato a portare a termine l’impresa di Costantinopoli, non si occupava da un po’ di tempo, né dell’Albania e né del capo di essa, tanto più che molti soldati ottomani erano impegnati nella campagna contro il ribelle Ibrahim bey, emiro di Caramania. Ma quando fu noto anche a lui il trattato stretto da Alfonso d’Aragona, quando gli fu chiaro che alle sue spalle si stava formando una coalizione nella quale per fortuna - dal suo punto di vista - non era entrata Venezia, volle, prevenendo i tempi, attaccare per non essere attaccato. In poche parole tentò di liquidare la questione albanese prima di affrontare l’altra, ben più grave che doveva garantirgli il dominio di Costantinopoli.
Nell’estate del 1452 due eserciti, agli ordini di Tali pascià, partirono verso l’Albania per mettere Skanderbeg e la sua gente fra due fuochi. Hamza bey a capo di 10.000 uomini si avvicinò alla fortezza di Modriza dove era asserragliato l’albanese con 4000 soldati, e lo affrontò il 21 luglio, sperando che Talip pascià, con il resto dell’esercito, cogliesse alle spalle gli albanesi durante la battaglia. Ma la battaglia durò molto meno di quanto Hamza bey pensasse. I turchi, assaliti con inaudita violenza, fuggirono in modo disordinato lasciando morti, feriti e prigionieri. Tra questi Hamza bey in persona. Quando Talip pascià arrivò nella valle di Mezadi per cogliere di sorpresa Giorgio Kastrioti, si vide affrontato da un intero esercito, esultante per la recente vittoria che portava con sé legati in prima fila Hamza bey e gli altri ufficiali prigionieri.
Talip pascià non si tirò indietro, anche perché lo seguivano 25000 uomini ben armati, ma dopo poche ore l’esercito turco fu di nuovo in fuga. Talip pascià rimase ucciso in combattimento per mano di Moisè Dibra. Queste vittorie risollevarono il prestigio di Giorgio Kastrioti in tutta Albania. Cogliendo il favorevole momento, Nicolò V incaricò Paolo Angeli, vescovo di Drivasto, di rincondurre i Dukagini sulla retta via.
Il 25 ottobre 1452, a Durazzo, alla presenza del comandante veneziano, i Dukagini fecero pace, almeno per il momento, con Giorgio Kastrioti. Ma quanto poco credessero Alfonso d’Aragona e Giorgio Kastrioti alle buoni intenzioni di Venezia, lo dimostrò, nel marzo dell’anno seguente il Re di Napoli, chiedendo direttamente al Doge di chiarire la sua politica. Perché la Serenissima non pagava più al Principe albanese la pensione di 1.400 ducati annui solennemente promessi nel 1448? Perché non solo aveva dato rifugio ai Dukagini durante alla loro defezione, ma aveva aiutato le loro manovre di avvicinamento al turco? Perché non partecipava anch’essa per riconciliare i Principi albanesi? Perché non veniva in aiuto all’albanese anche finanziariamente, impegnato contro i turchi, che minacciavano non soltanto lui, ma tutta la cristianità?
Mentre Venezia si disponeva per rispondere a questi precisi e stringenti interrogativi, altri avvenimenti maturavano mirando a sconvolgere tutto l’equilibrio della cristianità. Nell’aprile del 1453 Maometto II che non osava attaccare Costantinopoli, lasciandosi alle spalle gli albanesi ed i napoletani rincuorati dalle due vittorie dell’anno precedente, affidava a Ibrahim bey l’incarico di marciare sull’Albania sperando di avere migliore sorte di quella toccata a Talip pascià. Giorgio Kastrioti informato della presenza di un numeroso esercito – che solo in seguito si seppe che era diretto invece verso Costantinopoli – era partito da Adrianopoli. Skanderbeg temè che venisse per invadere l’Albania. Stabilì allora di attaccare oltre i confini, nel piano di Pollogo, preso Uskub. Lo scontro ebbe luogo il 22 aprile 1453. La battaglia si trasformò in massacro. Cosi come era caduto Talip pascià, cadde Ibrahim bey. La notizia di questa grande vittoria rallegrava ancora una volta l’Europa.
Ma la cristianità ebbe poco a godere di questo successo. Un mese dopo, il 29 maggio 1453, cadeva Costantinopoli.



Elton Varfi


Bibliografia

Historia e Skënderbeut, Marin Barleti. Tirana 1968.

L’Albania ed il Principe Scanderbeg, F. Cuniberti, Roux Frassati e C° Editori, Torino 1898.

Storia di Scanderbeg, Fan S. Noli, (versione di Francesco Argondizza),Roma 1924.

Scanderbeg, Alessandro Cutolo, Milano 1940.

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