Parte IX e ultima

In guerra contro il Sultano

Il Sultano, non appena venne a conoscenza della morte del papa e della conclusione della crociata, decise di assalire Giorgio Kastrioti in un momento in cui il condottiero ebbe un crollo delle proprie forze. Ballaban pascià, un rinnegato albanese esperto del territorio, partì con un forte esercito di 18.000 uomini con l’obiettivo di assolvere al preciso ordine di battere Giorgio Kastroti. Ballaban pascià, figlio di un pastore, se non fosse stato inviato, ancora fanciullo, alla corte turca e arruolato tra i giannizzeri e se non avesse raggiunto, grazie al suo valore, i più alti gradi dell'esercito, avrebbe dovuto servire un uomo rispetto al quale non si riteneva da meno. Maometto II era abbastanza sicuro che Ballaban avrebbe fatto di tutto pur di annientare l'odiatissimo suo compatriota.
Non attese l’offensiva per difendersi ed affrontare l'avversario, ma approfittando della bella stagione, tentò di entrare in Albania, dalla Macedonia, per puntare su Croia. Ma gli ostacoli del terreno, i continui attacchi degli albanesi, sfiancarono i suoi uomini più di quanto avesse previsto e nell'aprile del 1465, in Valcalia presso Ocrida, Kastrioti si scontrò con un esercito turco già logorato. Egli assalì i turchi vincendo, ma otto dei suoi migliori ufficiali, Moisé Dibra, Gino Musacchio, Musacchio d'Angelina, Biagio Giurizza, Giovanni Perlati, Nicola Erisio, Giorgio Cuca e Gino Maneshi pretesero troppo dalle proprie forze. Si dimenticarono dei precisi ordini del loro capo gettandosi tra le schiere turche che ripiegavano, in modo composto e, nonostante i loro sforzi disperati, furono tratti prigionieri. Ballaban pascià, ritiratosi in una località sicura, rifiutò ogni riscatto per questi uomini e li spedì a Maometto II, consapevole che l’unica ragione che lo allietasse era l’aver imprigionato gli ufficiali di Skanderbeg. Il Sultano infatti, consapevole della considerevole preda, dimenticò la sconfitta del suo esercito e, dopo aver invano esortato gli albanesi, per 15 lunghi giorni, a cambiar fede e bandiera, li fece scorticare vivi ed i cadaveri li gettò in pasto ai cani.


Dall’opera: M. Barletius – Historia de vita et gestis Scanderbegi Epirotarum principis – Roma 1506.

Quando gli albanesi seppero della misera fine subìta dai loro comandanti, ne rispettarono il lutto facendosi crescere lunga ed incolta la barba, le donne invece esaltarono, con canti funebri, le virtù dei martiri. Le campane suonarono a morto, per giorni e giorni, tutti giurarono di vendicarli nella maniera più terribile e, all'ordine di Giorgio Kastrioti, sconfinarono nelle terre turche mettendole a ferro e a fuoco, lasciando morte e distruzione al loro passaggio.
La battaglia di Valcalia si mostrò come il primo episodio di questa guerra.
Il Sultano che nonostante la sconfitta manteneva intatta la fiducia nell'abilità del traditore albanese, lo rifornì di uomini e lo spedì a tentare nuovamente la sorte.
Ballaban pascià ricomparve a Ocrida in Albania ed inviò, secondo gli usi della tradizione orientale, doni al suo nemico. Giorgio Kastrioti li conservò ricambiandoli con una zappa ed una punta di aratro, per ricordare all'altro la sua origine contadina ed affidargli gli unici attrezzi che potessero, secondo lui, star bene in quelle mani.
Ballaban pascià corrompendo le guardie agli accampamenti albanesi in Oranik, assalì gli alloggi all'alba, anche approfittando dell'assenza del capo che si trovava a Mezzadio, nella Dibra superiore. Ma l'albanese molto vigile, avvertito delle mosse del suo nemico, non solo fece in tempo a ritornare a Oranik e a disporre l'esercito in battaglia, ma riuscì anche a nascondere parte della sua cavalleria, perseguendo un suo astutissimo piano.
Ballaban pascià, fiducioso di sorprendere i soldati immersi nel sonno, si trovò di fronte ad un esercito schierato per il combattimento e la sua meraviglia si mutò in terrore quando si vide assalire, anche alle spalle, da un drappello di cavalleria comandato dal Giorgio Kastroti in persona. Per fortuna, non tutto l'esercito affidatogli era stato impiegato nella battaglia e grazie a ulteriori rinforzi tornò, nel mese di luglio e per la terza volta, sui suoi passi accampandosi nelle vicinanze di Sfetigrado.
Giorgio Kastrioti riuscì nuovamente ad accerchiarlo e sconfiggerlo, ma pagò a caro prezzo la sua vittoria rischiando, per un soffio, di morire nella lotta furibonda.
Fino a quel giorno, nessuna battaglia era stata combattuta con tanto accanimento dall'una e dall'altra parte. Mai si era vista tanta ferocia nel trucidare feriti e prigionieri e mai Giorgio Kastrioti aveva contato tante perdite tra i suoi uomini.
Maometto II, approfittando della stanchezza mostrata dall'esercito albanese, rimandò subito in Albania Ballaban pascià alla testa di 24.000 uomini, affidandone altri 16.000 ad un altro rinnegato albanese Jacup Arnauta sicché uno, dalla via di Ocrida, e l'altro, da quella di Berat, impegnassero Giorgio Kastrioti.
Ma quest'ultimo aveva previsto piano strategico e insidia.
Il Re di Napoli, sempre attento nei confronti del popolo albanese permise a Kastrioti, per mezzo dell’invio di notevoli aiuti, di rafforzare il suo esercito tanto duramente provato.
Egli, incurante dell’affaticamento della sua gente, fidandosi delle forze fresche che militavano alle sue dipendenze, scese verso Dibra con 12.000 uomini per attaccare Ballaban pascià prima che il rinnegato Arnaut lo obbligasse ad affrontare un’altra battaglia anche sull'altro fronte.
La vittoria degli albanesi fu piena e trionfale, ma senza goderla a lungo, Giorgio Kastrioti tornò sui suoi passi, poiché gli era giunta notizia che l'Arnauta si avvicinava a Tirana. Si scontrò con lui nella Pianura di Cassari, uccidendolo. I due capitani turchi contarono più di 20.000 morti e di 6.000 prigionieri; i rimanenti fuggiaschi trovarono, ad ogni varco, gli albanesi appostati per trucidarli e la terribile lotta sembrava non avesse mai fine.


Dall’opera: M. Barletius – Historia de vita et gestis Scanderbegi Epirotarum principis – Roma 1506.

Paolo II, il successore del defunto Papa Pio II, si mostrava con uno spirito pratico, come tutti i suoi compatrioti veneziani, non si esaltava con le continue vittorie albanesi, nonostante non festeggiava Giorgio Kastrioti come il baluardo della cristianità contro il turco, vedeva in lui una barriera in grado di arginare il propagarsi dell'Islam. Ma sapeva che l'albanese, più debole in termini di uomini e di mezzi, se non per valore, doveva essere aiutato ed assistito per garantire la sicurezza del papato e dell'intera cristianità.
Nonostante le vittorie continue delle quali il mondo Cristiano si vantava attribuendo ad egli parte del merito, Giorgio Kastrioti, ancora una volta comprese che se l’Occidente non gli avesse offerto un aiuto più concreto anziché solo parole di gratitudine, il suo destino sarebbe stato irrevocabilmente segnato. Il colosso turco si riorganizzava, attingendo in ogni dove del suo formidabile Impero, quelle schiere di soldati che la supremazia albanese soleva decimare.
Come già successo con Pio II, così adesso con il suo successore, pur non negando il loro aiuto, le varie potenze europee cercarono di guadagnare tempo rinviando, con futili pretesti, il loro sostegno finanziario. Dopo sei mesi di inutili trattative, il Papa fu molto schietto nel dichiarare che i governatori delle città italiane, pur consapevoli di andare contro i loro stessi interessi, non erano disponibili a concedere alcun aiuto che potesse favorire Venezia. Un giorno Paolo II seppe che il Re d'Ungheria Mattia Corvino il quale, nonostante le buone relazioni politiche, amava molto poco gli albanesi senza celare questo suo sentimento, rinunciava alla guerra contro il turco, poi giunse a Roma la notizia che, se fosse stata pienamente rassicurata dal Sultano, anche Venezia non sarebbe stata contraria a firmare la pace con i musulmani.
Questa informazione non era, però, del tutto esatta. Nell'agosto del 1465 il Senato Veneto aveva scritto a Giosafatte Barbaro, provveditore in Albania, di recarsi nel più breve tempo possibile presso l'albanese, per avvisarlo che Venezia si affrettava a fabbricare molte navi per tenere fronte alla flotta che, secondo le notizie del momento, che stava armardo il turco. Nel febbraio del 1466 aveva elargito 5.000 ducati in favore di Giorgio Kastrioti perché arruolasse sul posto i soldati per la sua difesa. Il 18 marzo di quell'anno annunciò all'Albania l'invio di denari, di bombardelle, spingarde e barili di polvere.
Il Papa temeva sempre che, se Venezia avesse abbandonato la partita, Giorgio Kastrioti sarebbe rimasto assolutamente solo a lottare contro i musulmani, con la sicurezza di dovere, prima o poi, piegare innanzi a quella prepotente forza di armi.

Il secondo assedio di Croia

Maometto II, dal canto suo, terminate vittoriosamente in suo favore le guerre in Caramania, in Romania e in Morea, era estremamente deciso ad aver ragione dell'albanese, con quella tattica di forza che lo avevo reso signore dell'impero d'Oriente.
A capo di un numeroso esercito partì da Monastir per Ocrida. Qui una parte delle truppe scese per la Valle del Drin nero fino ad Dibra alta, e per mezzo della valle del Kismo, raggiunse Croia. Il resto delle truppe, passando per Elbasan e per il passo di Petrella, arrivò a Tirana e si congiunse, sotto Croia, con l'altro contingente.
Al contrario di quanto era avvenuto negli anni precedenti, questa volta le forze albanesi non tentarono, con tafferugli e con agguati, di arrestare quella marcia. Giorgio Kastrioti stanco delle precedenti lotte, non cercò di misurarsi prima con l'uno e poi con l'altro esercito, ma si chiuse, astutamente, in Croia con il resto delle truppe pronte alla battaglia.
Poco più di 14.000 uomini erano chiamati a fronteggiare l'urto di uno dei più formidabili eserciti che avessero mai invaso quella terra. L'Europa non si rendeva conto che quella eroica guarnigione difendeva anche la cristianità contro l'Islam. Le difese naturali della città rendevano, inespugnabile la fortezza. Giorgio Kastrioti seguendo la sua antica tattica irrompeva d'improvviso tra le truppe turche, spargeva fra esse la morte ed il panico, rientrando successivamente tra le solide mura della sua capitale.
Il Sultano non resistì a lungo a quella insidiosa guerriglia. Dopo breve tempo lasciò a Ballaban pascià l’onere di continuare l'assedio e partì alla volta della fortezza di Chidna, nella Dibra inferiore. Giunto innanzi a Chidna, Maometto II la assediò. Riuscì a prenderla grazie al tradimento di due albanesi, massacrò tutta la popolazione, anziani, donne e bambini. Poi, temendo la rigida stagione, fece ritorno a Costantinopoli, disseminando la distruzione sul suo cammino.


Dall’opera: M. Barletius – Historia de vita et gestis Scanderbegi Epirotarum principis – Roma 1506.

Ragusa inviò un sostegno in aiuto dell'albanese, ma Mattia Corvino si astené da ogni intervento, gioioso del fatto che la furia di Maometto II ebbe a risparmiare l'Ungheria, convinto che le ore di Croia fossero contate. Anche Piero dei Medici pianse sulla sorte dell'Albania pur promettendo soccorsi mai arrivati; il Papa affannato, supplicante e minaccioso, chiese a tutti i Principi europei di soccorrere l'eroico albanese. Venezia si trovò perplessa sull’opportunità di impegnarsi fino in fondo in questa guerra pensando, in alternativa, di negoziare una pace che l’avrebbe garantita nell’Adriatico e in Oriente.
Nel frattempo, Giorgio Kastrioti, lasciata Croia ad un suo fido luogotenente, comparve improvviso, a metà dicembre del 1466, alle porte di Roma.
[...] gran folla trasse alla casa ove l'ospitarono, per vedere, con i propri occhi, il guerriero nel quale molti cristiani avevano riposto le loro speranze. Il Maestoso aspetto di lui, l'avvenenza grande della sua persona entusiasmano plebe e patriziato, Modesti sacerdoti e cardinali, che l'accolsero con onori quali l'Urbe da un pezzo non avevo conosciuto[1] [...]
Il Papa radunò subito un concistoro segreto, dichiarandosi pronto a corrispondere quanto poteva, senza ledere gli interessi della chiesa, minacciata, tra l'altro dal Re di Napoli che appariva affrancato dal pericolo francese.
Giorgio Kastrioti, lasciando Roma, portava con sè una spada, un elmo, la promessa di 5.000 ducati e di molte lettere che sarebbero state inviate ai sovrani europei perché fossero generosi in quegli aiuti che la Santa Sede non poteva garantire.
Skanderbeg passò da Roma a Napoli dove venne accolto, in Castelnuovo, da Re Ferrante il suo fido amico ed alleato. Al di là dei 1.500 ducati non si poteva ottenere altro dal Re, tanto più che quest'ultimo prevedeva una imminente guerra contro il Papa ed egli quindi non poteva né sguarnire il regno dai soldati, né depauperare le misere risorse finanziarie dello stato.
Il viaggio in Italia non aveva migliorato per nulla le condizioni del difensore di Croia.
Mentre si avvicinava alla sua capitale, Skanderbeg seppe che Jonuzi, fratello di Ballaban pascià, col proprio figlio Haidan, si stavano avvicinando verso la città assediata per congiungere le loro forze fresche alle altre già logorate, da mesi, intorno alla fortezza. Giorgio Kastrioti li assalì, obbligandoli alla fuga facendo prigionieri Jonuzi ed il figlio. Quando arrivò a Croia, scacciò i turchi dalle prime mura di cinta della fortezza mostrando, a Ballaban pascià, dalla parte più alta della stessa, i due prigionieri in catene. Quest’ultimò tentò di vendicare l’affronto, ordinando un altro assalto alle mura di Croia. Ma si trovò costretto tra i difensori della città da un lato e dagli uomini di Giorgio Kastrioti dall’altro.
Ballaban pascià cadde per mano di Giorgio Lleshi, e l’esercito, privo del capo, passò dall’attacco alla fuga.
A Costantinopoli, il Sultano alimentava nel cuore un furibondo desiderio di riscattare l’offesa ricevuta. Trascorso il tempo strettamente necessario alla riorganizzazione dell’esercito, Maometto II si mosse ancora verso l’Albania per risollevare la sua fama di guerriero innanzi all’Oriente e all’Occidente.
Il Sultano questa volta non puntò direttamente verso Croia.
Forte della dura esperienza e convinto che la fortezza potesse nelle sue mani solo per scarsità di viveri, attese chiudendo tutte le vie attraverso le quali arrivavano possibili rinforzi di uomini e rifornimenti. Avanzando lungo il fiume Shkumbin e lasciando ovunque guarnigioni molto forti, per eleminare il pericolo di un attacco alle spalle, occupò Elbassan e fortificò le opere di difesa per servirsene come base per le operazioni. Ricostruì la fortezza di Valma e si incamminò verso il mare con l’intenzione di occupare Durazzo, Alessio e tutti gli altri porti che costituivano, per l’Albania, il luogo sicuro per ogni rifornimento e la suprema salvezza per ogni ritirata.
Ma invano logorò sé stesso e le sue truppe per due mesi nelle fasi di assedio di Durazzo. La città resisteva e sarebbe resistita ancora a lungo, tanto che, con rapida decisione, Maometto II tolse l’assedio e si portò sotto Croia.
Gli attacchi sferrati da Maometto II furono tanti e molto sanguinosi. Ma anche questa volta, benché vantasse lunga esperienza da guerriero, il tentativo di assalto della fortezza si mostrò vano; rinunciando all’assedio per tornare subito dopo a Costantinopoli.
Ancora una volta Giorgio Kastrioti era il vincitore. Ma l’albanese sapeva di non poter cogliere la vittoria in modo definitivo. Ciò che non poteva sapere era che quella sarebbe stata la sua ultima battaglia.

La morte

Giorgio Kastrioti, dopo la ritirata del Sultano, si accorse di non avere né artiglierie né uomini in quantità tale da far cadere la fortezza di Elbasan ed il campo fortificato di Valma. Vide che nonostante la partenza di Maometto II, il popolo era stanco, esaurito e terrorizzato. Capì che la partita volgeva, lentamente ma inesorabilmente, verso la fine.
Allora gli sembrò saggio convocare ad Alessio il congresso dei Principi, per esporre a loro ed al rettore veneziano la triste realtà dei fatti e chiedere a tutti un aiuto adeguato.
Giorgio Kastrioti, appena giunto in Alessio, accusò uno stato febbrile causato da malaria, tanto da costringerlo a letto.
La morte, che lo aveva risparmiato in cento battaglie, lo attendeva al varco. Il morbo ebbe ragione dell'eroe, in breve tempo.
Morente, seppe che un contingente turco, attraversando le montagne, muoveva su Scutari. Tentò di vincere, allora con l’ardore della volontà, chiese le sue armi e si mise in groppa al suo cavallo. Ma cadde sfinito e, finalmente, vinto. La guardia partì per affrontare il nemico, senza comandante, ma portava il vessillo che lo rappresentava, tanto che il turco pensò che fosse ancora il condottiero invincibile degli albanesi e all’annuncio di quel nome fuggì in maniera disordinata dal campo di battaglia.

La morte di Skanderbeg. incisione tedesca del XVI secolo. pubblico dominio.

Skanderbeg agonizzante venne raggiunto da messaggeri di vittoria venuti per offrirgli un ultimo tributo di conforto. Allora volle presso di sé i Principi albanesi ed il rettore di Venezia, raccomandando a tutti di raggiungere un accordo di unione che poteva garantire loro la resistenza al Sultano.
Poi morì.
Cadeva il 17 gennaio del 1468.
Quando l'ombra della morte scese su quel nobile volto un’angoscia terribile pervase i familiari e gli albanesi tutti. Principi, soldati, popolo, si recarono alla cattedrale di S. Nicolò dove venne sepolto il difensore della gente albanese, e ognuno sentì in cuore il presagio che, con quella spoglia mortale, scendeva nella tomba anche la libertà della patria.
La morte di Giorgio Kastrioti segnò, infatti, la fine dell'Albania.
Il Re degli albanesi non combatté solo per difendere l’Albania dagli ottomani ma, per ben 25 anni, fece da scudo e difese di fatto anche l’Europa dal pericolo islamico. Per rendersi conto cosa poteva essere un’Europa sotto il dominio Ottomano, basta fare riferimento alla storia dell’Albania nei 500 anni successivi alla morte di Skanderbeg.
[…] [2]Il globo terrestre ha conosciuto il peso del giogo, ma il giogo sotto il quale caddero i popoli balcanici è difficile immaginarlo. Fu un rotolare simile a quello dei titani nell’inferno. Una notte che durò centinaia di anni, e al cui interno intere generazioni nascevano e morivano cieche. Come per un equilibrio sinistro delle cose ma, con poli opposti, con la logica del progresso , tutto quello splendore antico venne coperto dal terrore dei dominatori che non avevano precedenti quando al buio, all’ignoranza e all’arretratezza. Il trauma psichico che ebbero i popoli balcanici è inimmaginabile. I popoli che immaginavano la loro vita a tre dimensioni, la zona della morte, la vita reale la sfera celeste, all’improvviso si mutilarono di tutto ciò che era sublime e spirituale. Questo fu come perdere il cielo […] quel che successe ai prìncipi greci con i persiani fu ripetuto 20 secoli dopo, ma questa volta da tutti i principi balcanici[3] […] Così all’inizio fecero dichiarazioni e promesse, che leggeri di mente come erano, pensavano di non mantenere. Successivamente rinunziarono ai loro nomi, e con i nomi alcuni rinunziarono anche alla loro religione. In questa follia si distinsero i conti, i testardi baroni albanesi, che modificarono i loro bei nomi Gjergj, Gjon, Pal, in Mehmet, Ali, e modificarono i titoli di conte e di duca in pashà e vesir, come se si trattasse di un gioco. Ma fu proprio quel gioco a farli crollare […].

[1] Alessandro Cutolo, Scanderbeg, Milano 1940.

[2] Ismail Kadarè, “Eschilo, il gran perdente”, Edizioni Controluce.

[3] Quando Ismail Kadarè, scrive “i popoli e principi balcanici” è ovvio che descrive la situazione albanese sotto il dominio turco.


Elton Varfi

Bibliografia

Historia e Skënderbeut, Marin Barleti. Tirana 1968.

L’Albania ed il Principe Scanderbeg, F. Cuniberti, Roux Frassati e C° Editori, Torino 1898.

Storia di Scanderbeg, Fan S. Noli, (versione di Francesco Argondizza),Roma 1924.

Scanderbeg, Alessandro Cutolo, Milano 1940.


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