L’Italia fascista occupa l’Albania

Elton A. Varfi


Roma 1938. Un uomo si trova nel suo ufficio, depresso e sull’orlo di una crisi di nervi. È in attesa dell’arrivo di un principe, ma come al solito, anche questa volta, il principe è stato spedito a Roma a cose fatte. È proprio questo il tormento che affligge l’uomo.
Ahmet Zogolli apparteneva a una dinastia di capimafia del Mathi. Gli Zogolli, che dopo l’occupazione turca erano stati tra i primi a convertirsi all’islamismo, avevano affermato il loro potere sulla contrada grazie alla protezione dei Pascià che man mano si susseguivano nel governo del Paese in nome del sultano. Possedevano delle pecore, qualche pascolo e una banda di sicari di cui si servivano per affermare il loro piccolo dominio feudale e regolamentare a loro piacimento le faide e guerriglie.
Ahmet Zogolli, nato nel 1895, aveva studiato all’Accademia militare di Costantinopoli, ma quando l’Albania passò, in seguito alle guerre balcaniche, sotto il dominio di Vienna, si trasferì nell’esercito austriaco nel quale divenne colonnello. Congedato alla fine della prima guerra mondiale, rimase senza gradi militari, senza bandiera e senza soldi ritornò nel Mathi, ma mai rassegnato a rimanervi come i propri antenati.
I trattati di pace che avevano imposto il regime democratico in Albania, erano stati stipulati solo per alleviare l’opinione pubblica. Ad Ahmed bastò il nome per diventare deputato del suo distretto, ma la sua ambizione fu presto ben servita dall’astuzia ereditaria degli Zogolli, da un notevole coraggio e da una totale mancanza di scrupoli, tanto che appena trentenne divenne ministro degli interni, carica di cui si servì per moltiplicare gli amici e perseguitare i nemici. Subito dopo si insediò alla Presidenza del Consiglio. Quando, alle successive elezioni fu battuto dal liberale Fan Noli, si rifiutò di cedergli il posto e tentò di instaurare la dittatura, ma non ci riuscì per mancanza di forze all’interno e di appoggi all’esterno. Costretto alla fuga, riparò a Belgrado.


Ahmet Zog (Zogolli)
1895 - 1961 

Galeazzo Ciano nato a Livorno nel 1903, figlio di un conte, sposò nel 1930 Edda Mussolini e nel 1936 Mussolini nominò suo genero ministro degli affari esteri, subentrandogli. Le mire di conte Ciano sull’Albania non si mostrarono tanto velate. Il 25 agosto 1937 scrisse nel suo diario:
Ho persuaso il Duce a dare 60 milioni, in quattro anni, all'Albania, per lavori di varia natura. Il mio viaggio a Tirana mi ha convinto della necessità di curare a fondo quel settore. Bisogna crearvi dei centri stabili di interessi italiani. Non si sa quello che l'avvenire può riservare. Dobbiamo esser pronti a cogliere le occasioni che si presenteranno. Noi, non ci ritireremo, come nel 1920. Nel meridione abbiamo assorbito alcune centinaia di migliaia di albanesi. Perché non potrebbe avvenire altrettanto, sull'altra sponda, battente dell'Adriatico?”
L’uomo che sta aspettando il principe nel suo ufficio, è un dittatore. Anzi, si è autoproclamato “DVX”, il Duce del fascismo. Si chiama Benito Mussolini. È di cattivo umore e irascibile perché Adolf Hitler, suo alleato, ha appena compiuto l’atto di annessione della Cecoslovacchia alla Germania, senza farlo partecipe. Il principe Filippo d’Assia, fu spedito a Roma, con un messaggio personale di Hitler per il Duce. Ma sia la brevità della spiegazione, tra l’altro Filippo d’Asia aveva il compito di illustrare solo verbalmente la motivazione della nuova mossa tedesca, sia il contenuto poco convincente aumentarono, anziché placare, il malumore del dittatore italiano. Con il suo fiuto giornalistico, il Duce non voleva neppure dare notizia della visita del principe.
“Gli italiani riderebbero di me, ogni volta che Hitler prende uno Stato mi manda un messaggio”, avrebbe esclamato; ma un gesto pubblico di disapprovazione avrebbe avuto, in quel momento il significato d’una sconfitta politica. Ciano divenne ancora più irritato del suocero. Avendo manifestato buon viso al gioco tedesco “per evitare di renderci a Dio piacenti ed ai nimici sui[1]. Mussolini e il genero vollero tuttavia attenuare l’umiliazione con una contromossa. Ciano era dotato di notevole intelligenza ma poca fantasia.
Così al successo tedesco era necessario contrapporre un successo italiano. Il “pezzo” di terra da conquistare, senza troppa fatica, e da gettare sul piatto della bilancia propagandistica per non farla pendere troppo dalla parte di Hitler, c’era. Si chiamava Albania. La rivalsa non era delle migliori. Nel piccolo Stato balcanico l’Italia aveva un’influenza internazionalmente riconosciuta, e pagata con aiuti economici piuttosto cospicui. Ma l’Albania era indipendente e anche piuttosto riluttante a lasciarsi interamente annettere. Ergo, di facile conquista.
Gli interessi del governo fascista nei confronti dell’Albania furono chiari fin da subito.
L’azione dell’Italia fascista fu decisiva per la ricostruzione economica dell'Albania.
I rapporti economici fra i due Stati furono impiantati convenzionalmente col trattato di commercio e di navigazione stipulato il 20 gennaio 1924, seguìto dalla convenzione di stabilimento e quella consolare, firmata qualche mese dopo (29 febbraio 1924). Da allora l’Italia, con successivi accordi, andò sempre più intensificando le importazioni dall’Albania, assorbendone quasi totalmente la produzione, benché la sua qualità non fosse di facile collocazione sul mercato italiano. Non ebbero lo stesso risultato le esportazioni, poiché l’Albania continuò ad importare da altri Paesi, e soltanto negli ultimi anni - quando l’Italia instaurò la politica dei contingentamenti e degli scambi equilibrati - si svilupparono le importazioni dall’Italia, raggiungendo un’alta percentuale.
Dal 1925 al 1939, nel suo territorio, furono investiti ben due miliardi di lire. Enumerando tutto quel che si era fatto per iniziativa italiana.
Lo stesso conte Ciano, nel discorso pronunciato alla Camera il 15 aprile 1939, dichiarava: ”Quanto in questi ultimi quindici anni è stato compiuto in Albania è legato esclusivamente al nome dell’Italia. Lavoro e capitali italiani, con l’ausilio dell’ottima mano d’opera albanese, hanno costruito i porti, tracciate le strade, bonificate le terre, trivellato i pozzi, frugate le miniere”.
Ahmet Zog, che nel frattempo aveva cambiato il cognome, con l’aiuto sia degli jugoslavi sia degli italiani in breve tempo riconquistò il potere sino a coronarsi Presidente della Repubblica. Ma non si accontentò, tre anni dopo volle una corona vera, quella di Re, e Mussolini gliela consentì in cambio di una promessa di eterna fedeltà all’Italia che, pronunciata da un uomo come Zog, valeva quel che valeva. Tale azione mossa da Mussolini si mostrò un errore di ingenuità, si capì subito. Una volta Re, Zog volle farlo seriamente assumendo atteggiamenti di indipendenza, spesso di arroganza, che rischiarono addirittura di provocare una crisi dei rapporti fra i due Paesi, e precisamente nel 1934, Zog si rifiutò di rinnovare il trattato commerciale con l’Italia e ne firmò uno con la Jugoslavia.
Re Zog era un uomo molto sospettoso e concepiva la politica come un intrigo di palazzo, nel quale però si mostrava “maestro”. Raramente si esibiva in pubblico, parlava poco e non si confidava con nessuno. L’unica influenza che subiva era quella della famiglia e particolarmente delle sorelle, che da lui si erano fatte riconoscere il grado di generalesse e indossata la divisa, comandavano nel palazzo reale, mostrandosi anti italiane anche perché temevano che Roma volesse dare al Re una moglie italiana che le avrebbe spodestate.
Le sorelle di Re Zog in costume albanese. Foto presa dal libro "Valigia diplomatica" di Pietro Quaroni.

Effettivamente questo era il progetto che Roma coltivava e per realizzarlo qualcuno aveva anche suggerito di “sacrificare” a Zog una principessa di sangue Savoia. Ma non si era riusciti a trovarne nessuna disposta a tanto, ripiegando così su una baronessa napoletana. A Napoli si trovava il marchese d’Auletta, discendente di Giorgio Kastrioti di Skanderberg, il grande eroe nazionale albanese. Il marchese aveva due figlie, sicché ci si domandò perché non fare sposare a Zog una discendente di Skanderberg e realizzare così il ricongiungimento della nuova dinastia con la vecchia?
Questa ipotesi fu scartata dai dirigenti fascisti. Il ragionamento di Roma fu complesso nei confronti della giovane Auletta che, una volta regina dell’Albania, rischiava di diventare più albanese degli albanesi stessi, una principessa sarebbe stata tutt’altra cosa. Poi, per il maggior prestigio del suo sangue reale, in caso di morte di Zog, sarebbe stato più facile organizzare una reggenza italiana. In ogni caso Zog per riaffermare la propria indipendenza, volle fare una scelta per conto proprio. La fece su una fotografia mostratagli da una ragazza ungherese che gli era stata proposta dal suo segretario. Zog respinse la ragazza, mantenne la fotografia, e ne invitò a Tirana l’originale. Era Geraldina Apponyi che, erede di una grande famiglia ungherese decaduta, non aveva altra dote che il proprio nome e un viso dolcissimo, del tutto in linea col suo carattere.
Le nozze furono celebrate il 28 novembre del 1937, 25º anniversario dell’indipendenza albanese, e furono un ennesimo motivo di dissidio, stavolta più profondo, con l’Italia. Non soltanto perché Zog aveva rifiutato una sposa italiana, ma anche per le offese che furono mosse, soprattutto dalle sorelle ai due rappresentanti italiani, che erano Ciano per il governo e il duca di Bergamo per casa Savoia. La crisi, era già nell’aria per motivi meno futili. Ma forse l’irritazione di Ciano contribuì ad aggravarla e Zog, o che non ne avesse sentore o per punta di orgoglio, non fece nulla per evitarlo.
Ciano in qualità di ministro degli esteri italiano, avevo ottenuto che gli jugoslavi gli lasciassero le mani libere in Albania, con le clausole segrete di un trattato del 1937, ed aveva quindi assillato Mussolini di rapporti che presentavano l’Albania come un Paese ricco, effettivamente ricco, e lasciava prevedere una possibile ingerenza tedesca in quel clima sottoposto da tempo al controllo italiano. Non mancavano in queste descrizioni di Ciano, note sociali in chiave anti-Zog.
Nel maggio del 1938, grazie a questa opera di persuasione, Ciano aveva ottenuto dal Duce una sommaria approvazione per preparare l’azione per il mese di maggio successivo. Nel frattempo il delfino del Duce, che era oltremodo spregiudicato nello scegliere i mezzi della sua politica, meditò perfino di ricorrere all’assassinio di Zog, il 27 ottobre 1938 annotava sul diario:
L’azione si comincia a profilare netta: Uccisione del Re (sembra che se ne incarichi Koҫi dietro compenso di dieci milioni), movimenti della piazza, discesa delle bande fedeli a noi (praticamente tutti i capi tranne quelli di Kmia), invocazione all’Italia per un intervento politico e se del caso militare, offerta della corona al Re Imperatore e in un secondo tempo annessione. Jacomoni garantisce che tutto può avvenire regolarmente con un mese di preavviso).
Fino a quel momento Ciano aveva agito di sua iniziativa. Era in atto un duello fra Ciano e Zog. Mussolini vacillava, persuaso ora dall’annessione ora dall’allontanamento, secondo l’evoluzione delle vicende internazionali.
A dare una mano a Ciano, ci pensò Hitler, con le sue conquiste. Ma ancora una volta il Duce preferì temporeggiare, forse non del tutto convinto delle fantasiose descrizioni del genero sulle ricchezze albanesi. Mussolini spiegò a Ciano che lo sbarco in Albania avrebbe scosso la compagine jugoslava e favorito “un’indipendenza croata sotto l’egida tedesca, il che vorrebbe dire i prussiani a Sussak”[2].
Non vale la pena - aggiunse il Duce - di correre questo rischio per rendere l’Albania, che potremmo avere in qualsiasi altro momento.”
Anziché alla occupazione militare, Mussolini pensò a un patto che assoggettasse del tutto l’Albania all’Italia, salvando le apparenze internazionali, ma non lasciando dubbi sulla sostanza dell’avvenimento. Lo propose a Zog. Con il trattato sarebbe stato autorizzato lo sbarco di truppe italiane nel Paese, ma come alleati, non come invasori. Una nota personale del Duce a Zog comunicava di “rafforzare l’alleanza fino ad accomunare nello stesso destino i due Stati e i due popoli”. Zog avrebbe conservato il trono, accettando. In caso contrario “le conseguenze sarebbero ricadute su di lui e sul popolo albanese”.
Non era quello che Ciano voleva. Il protettorato non gli bastava, aveva intrigato per la conquista. Era invece quello che voleva Vittorio Emanuele III, convinto che non valesse la pena di correre una grossa avventura per “quattro sassi”.
A questo punto Zog commise un fatale errore di valutazione. Allenato da anni a destreggiarsi in situazioni difficili e a uscirne indenne grazie a espedienti sleali, si illuse di poter indugiare, dopo quella proposta di patto che era un diktat all’italiana, più morbido di quelli tedeschi, ma non negoziabile.
Il 31 marzo 1939 fu messo a punto, a Palazzo Chigi, il piano di invasione, approntato troppo tardi e con mezzi che sarebbero stati inadeguati, se appena gli albanesi avessero opposto resistenza. Alla riunione erano presenti Ciano, il generale Guzzoni, che era stato designato solo quel giorno a comandare le truppe italiane, e Jacomoni. L’impreparazione italiana emerse clamorosamente: “sembra che non si riesca a rimediare in tutto l’esercito - osservò Ciano - un battaglione di motociclisti allenati, che dovrebbero di sorpresa arrivare a Tirana”. Infervorato da una impresa della quale rivendicava il patrocinio, Ciano studiava ogni particolare, alla sua maniera dilettantesca e goliardica.
Il 4 aprile 1939 le pressioni italiane su Zog divennero definitive. Doveva rispondere entro 24 ore. Poi gli fu concessa una proroga, ma di un solo giorno. Un telegramma a firma di Mussolini, la sera del 5 aprile, esigeva da Zog una risposta “positiva o negativa” per il giorno successivo, non oltre mezzogiorno. Messo alle strette, Zog abbozzò delle controproposte, per attenuare almeno certe clausole che consacravano il suo ruolo di vassallo. All’alba del 5 aprile gli era nato un figlio maschio. Il 6 aprile, alle quattro del pomeriggio, le navi italiane salparono per Durazzo, dove le truppe sbarcarono a terraferma prima che facesse luce. Ma la mezzanotte precedente il ministro degli esteri albanese Libohova si era recato nella sede della legazione italiana e aveva comunicato a Jacomoni che Zog era pronto a trattare. Jacomoni ne informò il ministro degli esteri e apprese dal telegramma di risposta, che era stato estromesso da ogni ulteriore colloquio. Se il Re albanese voleva trattare, poteva farlo con Guzzoni. Re Zog si dichiarò disposto ad accettare la presenza nel Paese di una divisione, ma insistette su alcune rettifiche del trattato.
Stava soltanto guadagnando tempo, in realtà si preparava a fuggire in Grecia con l’intera e numerosa famiglia,
Finalmente la mattina dell’8 aprile Galeazzo Ciano poté atterrare a Tirana occupata. Seguirono discorsi, brindisi, dimostrazioni di folla inneggiante a Ciano che si affacciò al balcone di palazzo Skanderberg. L’operazione militare fu una una parata di motociclisti, ciclisti e piccoli carri armati della divisione Centauro al comando del generale Messe. I 45000 uomini armati che si mormorava fossero risoluti a dare battaglia, non si fecero vivi. Solo a Durazzo si contarono alcuni morti tra le truppe italiane, otto marinai e tre bersaglieri.


Lo sbarco delle truppe italiane a Durazzo e, la parata dei bersaglieri a Tirana

Re Zog non lasciava molti rimpianti, anche se la presenza della regina con il figlio neonato nella carovana dei fuggiaschi diede alla vicenda un tocco romantico e nel contempo drammatico. La scelta dei giorni di Pasqua per l’aggressione apparve estremamente odiosa.
L’incarico di costituire il nuovo governo “protetto” fu affidato a Shefqet Verlaci uno dei molti notabili che si affrettarono a collaborare con Jacomoni e Guzzoni.
Una Costituente su misura approvò alla unanimità la Unione personale tra i due Paesi. Gli albanesi avrebbero preferito che la Corona d’Albania fosse offerta a un Principe di Casa Savoia. Fu preferita invece l’aggiunta della nuova corona alle altre di Re d’Italia e imperatore d’Etiopia che Vittorio Emanuele III già cingeva. Dopodiché la vita albanese fu plasmata sulla base dello stile italiano, con un partito fascista e un’amministrazione che prendeva ordini da Roma. Il 16 aprile una delegazione albanese offrì solennemente la corona a Vittorio Emanuele III. Verlaci ha scritto Ciano, pronunciò “con stanchezza e senza convinzione” al quirinale il discorsetto d’occasione, il Re e Imperatore rispose “con voce incerta e tremante” sotto lo sguardo di un “bronzeo gigante, Mussolini”.
L’atto di forza italiano suscitò qualche ripercussione internazionale, ma molto modesta. Non comparabile, comunque, all’allarme provocato dalle annessioni tedesche. In fin dei conti l’Italia, impadronendosi dell’Albania, aveva compiuto, osservò qualcuno, un gesto paragonabile a quello di chi rapisce la propria moglie. Particolare nervosismo si avvertì negli Stati balcanici. Proprio l’insediamento in Albania consentì, un anno e mezzo dopo, a Mussolini di intraprendere l’infausta e ingloriosa campagna di Grecia.

[1] L'osservazione è di Ciano.
[2] Sussak (in croato Sušak) è un popoloso sobborgo della città di Fiume, in Croazia.

Bibliografia:
Amadeo Giannini, L’Albania dall’indipendenza all’unione con l’Italia, 1913-1939. Varese 1940.

Indro Montanelli, Mario Cervi, Storia d’Italia, 1936-1943. Rizzoli 1980.

Pietro Quaroni, Valigia diplomatica. Garzanti, 1956.


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