(28/11/1912 – 28/11/2021) - Esattamente 109 anni fa l’Albania divenne libera e indipendente. “Albania che nasce” è un saggio elaborato da Eugenio Vaina nel 1914, scritto quasi contemporaneamente al conseguimento dell’autonomia, capace di fornire fatti ed eventi, di recente memoria, relativi alle condizioni che portarono all’indipendenza albanese. Ci descrive dettagliatamente le manovre politiche e le mire espansionistiche degli Stati confinanti con l’Albania, miranti a un unico obiettivo, la spartizione del territorio albanese e di conseguenza la sua scomparsa. Quindi anche oggi, sebbene siano trascorsi ben 109 anni, l’indipendenza acquisita si mostra come un miracolo. Nei paragrafi successivi comprenderete come Eugenio Vaina illustra i momenti antecedenti all’indipendenza albanese. Credo che saggi come questo interpretino un’importanza fondamentale nella descrizione dei fatti accaduti, poiché ci fanno conoscere la storia cruda senza veli e lontano da qualsiasi ideologia.
In perenne ricordo di quel benedetto giorno!



Albania che nasce
Eugenio Vaina

La guerra italo-turca indirizzava i balcanici all'azione: il genio politico di Venizelos e di Pasic, l'ambizione dello zar Ferdinando e i vecchi spiriti guerrieri di Re Nicola si aggregavano per un attimo, fra la primavera e l'autunno 1912, in vista di un interesse comune, sicché le proposte austriache di riforma in Macedonia venivano da avanzate è soffocata dal frastuono del cannone di monte Decic, ai primi di ottobre. I montenegrini arrivarono fino a Fusha e Stojt, alle porte di Scutari, dove vi si accamparono per sei mesi; i Bulgari arrivavano a Ciatalgia, i serbi entravano in Uskub, i greci prendevano Salonicco. Il nodo attorno all'Albania era serrato e non rimaneva, per la seconda fase della campagna, altro compito che eseguirne la spartizione secondo un piano prestabilito segretamente, non appena la resistenza turca si fosse abbattuta nelle roccaforti di Monastir, di Giannina e di Scutari. Tale divisione talmente era premeditata che i particolari, negli approcci iniziali, erano minuziosamente noti, fin dalla primavera precedente, fra alcuni giornalisti italiani più al corrente della politica balcanica circolava sicura la voce che l'Albania era finita. I montenegrini avrebbero avuto il dominio di Scutari col lago, la montagna e il mare; i serbi estendevano il loro dominio fino a Durazzo; i greci risalivano fino al corso dello Shkumbin. Nulla rimaneva.
Troppe manifestazioni ci inducono alla certezza della ferma deliberazione di questo piano, perché possiamo dubitarne. È il primo ministro serbo Pasic che dichiara diplomaticamente il 7 novembre: “l'Albania albanese creerebbe un focolare di torbidi e di conflitti. La migliore soluzione sarebbe dunque quella di applicare agli albanesi il trattamento che avevano nel Medioevo: facevano allora parte degli Stati bizantino e serbo senza avere privilegi speciali, ma la loro individualità e la loro lingua erano rispettate”. È il generalissimo greco Danglis che, con la più militaresca brutalità, conferma il 14 e dicembre: “Noi tendiamo che l'Albania sia divisa tra greci e servi, già che la vagheggiata autonomia albanese è cosa irrealizzabile”. Perfino il memoriale montenegrino del 17 gennaio 1913 alla conferenza di Londra colloca gravemente l'Albania fra i paesi che “sono destinati a gravitare nell'orbita delle Nazioni politicamente più evolute”.
È legittimo ora domandarsi se si ha un'offerta di Alleanza avanzata dagli Albanesi avrebbe potuto svolgere i balcanici dai loro proponimenti così esplicitamente manifestati. Certo all’Albania è mancato in quel momento l'uomo rappresentativo e soprattutto il tempo per deliberare che già il nemico era in casa[…].
[…]A Giakova, e Dibra, centri puramente albanesi che tuttavia accolsero i serbi senza combattere, avvennero delle scene di saccheggio e di uccisione delle quali ancora suona l’eco viva e dolorosa raccolta dalla testimonianza dei superstiti.
“A Giakova vi furono 750 morti fra i quali donne e bambini; tutte le case furono invase, saccheggiate e incendiate. Gli invasori portarono via tutto: non lasciarono nemmeno le provviste necessarie alla vita quotidiana ed ai bisogni domestici”.
Ma non fu l’unica pagina dolorosa, ad essa si accompagnarono anche più tristemente le vicende di Dibra e Durazzo. Accolte pacificamente anche in questi luoghi, le truppe serbe in quattro mesi di dominio incendiarono venti villaggi, raccolsero le masserizie delle case e i depositi di grano e gli diedero fuoco; quarantotto donne furono oltraggiate; s’interruppe per i musulmani qualsiasi libertà religiosa[…].


[…] Atroci, dolorosi episodi purtroppo comuni ad ogni guerra di conquista, perché non sia ingeneroso levarvi a capo di accusa contro tutto un nobile popolo, traviato, come altri, da una passeggera ebbrezza di insana retorica imperialista. Si riferiscono i fatti soltanto per dare una ragione più evidente all’assenza e alla neutralità albanese di fronte all’azione degli alleati balcanici.
Fu perlopiù una neutralità disarmata, incapace così a conciliare delle simpatie, come resistere all’attacco. Si aspettavano che l’Europa facesse per loro ciò che scoraggiati non osavano essi stessi, quegli albanesi che assistettero allo sfacelo con un amaro fatalismo che rasentò l’indifferenza.
E l’Europa gli farà pagare il conto di tale inoperosità e oblio.
Singolare fra tutti, per il suo particolare significato, fu l’ingresso dei serbi in Durazzo: “è un po’ difficile dire precisamente, scriveva allora al Corriere della Sera A.Zenari che vi fu presente, con quale animo il popolo albanese abbia assistito ai progressi delle armi serbe. È innegabile che la città, così pittoresca nel suo marcatissimo carattere orientale, si mantenne abbastanza calma, e questo è merito anche delle truppe serbe che sono ammirevoli (siamo sotto gli occhi della pubblica opinione europea!) per serietà e disciplina. Finora non è accaduto un minimo incidente. Nelle strade brulicanti di soldati, s’incontrano ogni venti metri sentinelle con la baionetta innestata, transitano frequenti grosse pattuglie. Ma il pensiero del popolo, ripeto, indecifrabile: l’elemento ortodosso fu l’unico che manifestò chiaramente la sua soddisfazione. Il musulmano è taciturno e pare rassegnarsi al fatto compiuto; il cattolico invece non nasconde una certa freddezza quasi ostile” […].
[…] Troppo ferrate erano le passioni e gli interessi che spingevano alla conquista, e in nome dell’etnografia e greci nel Sud e nel Nord i serbi in nome di bisogni economici. Ma la questione albanese ebbe la fortuna di restar avvolta in una rete di grandi file internazionali che dettero forza di vittoria dei conati altrimenti destinati a rimanere sterili tanto che l’indipendenza, più volte ricercata invano sui campi di battaglia e che ora appariva perduta per sempre, veniva invece riconquistata nella più sicura pace, sulla linea stessa degli interessi italiani ed austriaci.
L’appassionante lotta diplomatica dell’inverno 1912-1913 si è svolta sostanzialmente, tra due persone che erano schermo ad altri, nascosti dietro di loro. Ciò ne costituiva tutta la difficoltà e causa ancor oggi i facili equivoci di chi troppo e avvezzo a lasciarci guidare soltanto da tendenze mal riflesse. Questione nazionale albanese è questione internazionale intrecciarono così saldamente che ad isolare uno di questi aspetti paralleli si rischia di confonderli tutt’e due. Non tanto si è lottato, si lotta fra Serbia e Albania, quando si è ripreso nel 1912 su questo nuovo terreno, in mutate condizioni il duello fieri dell’inverno 1908-1909 fra la grande Austria, o meglio fra la potenza germanica che faceva loro nuovo passo avanti verso l’Egeo, e l’ancor debole Slavia meridionale tendente a ricostruirsi, per forza e con l’ausilio della Russia, all’infuori della sua orbita. La Serbia, soffocata fra le frontiere che racchiudevano i propri bestiami e quelle che potevano chiudersi i suoi cannoni, aveva reclamato, per compensare, l’annessione della Bosnia, una piccola striscia di terra a settentrione del Sangiaccato e del Montenegro, fino alla Dalmazia. La partita fu persa; forse la diplomazia italiana si è poi pentita un poco di non aver ottenuto dall’Austria quella assicurazione delle sue buone intenzioni future che gli Stati balcanici si sono quindi presa fra tante complicazioni da sé. La Serbia ebbe il buon senso di non partecipare a una guerra senza speranza. Non appena si riunì col Montenegro, intuì che una striscia di mare si sarebbe potuta protendere soltanto al centro di questo Stato, attraverso il territorio albanese. Senza elemosinarla più dall’Austria, mi mise le mani con la forza dietro di sé di quattrocentomila baionette vittoriose.
Ma nel far ciò doveva incontrare per necessità di cose anche l’Italia solidale nell’esigenza di un’autonomia albanese sostituita aldilà dell’Adriatico dal cadente governo ottomano, senza alterazione sostanziale della precedente situazione di equilibrio.
Per questo intreccio di movimenti, il giorno prima che scendessero i serbi in Durazzo, vi sbarcava rapidamente Ismail Kemal per costituire il precedente d’un governo albanese. Veniva da Vienna e cercava una capitale a Valona dove l’Italia arrestò appena con una memorabile dimostrazione del Parlamento Nazionale, la minaccia di un’occupazione greca. Il 28 novembre 1912 Ismail Kemal alza a Valona la bandiera rossa con l’aquila bicipite e proclama l’Albania paese libero e indipendente[1].
Il 2 dicembre si componeva il Governo provvisorio d’Albania, mentre pochi giorni dopo la Conferenza di Londra deliberava all’unanimità i due principi dell’indipendenza dell’Albania e del porto commerciale serbo sull’Adriatico, riservando però ad ulteriori studi la lunga e laboriosa delimitazione dei confini del nuovo Stato.

Albania che nasce. Eugenio Vaina. Francesco Battiato editore. Catania 1914.








[1] N.d.r.

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