Le scoperte di Phoinike ( o Feniki) e Butrinto
Le scoperte archeologiche fatte in Albania dalla nostra Missione
(1924 - 1930)
di
Luigi M. Ugolini[1]
Per colui il quale osserva e giudica con mente serena i fenomeni storici sono facilmente spiegabili le ragioni per le quali l’Italia costantemente rivolge la propria attenzione verso la nazione amica d’oltre Adriatico: l’Albania. Troppo vitali sono per noi gli avvenimenti che si svolgono o si preparano in questa nazione perché noi possiamo disinteressarcene.
Luigi Maria Ugolini 1895 - 1936
La prima esplorazione archeologica
Nel 1418 si ebbe poi la prima e vera esplorazione archeologica. Ciriaco d’Ancona l’umanista e l’antiquario per eccellenza - prima di recarsi in Grecia, percorre l’Acroceraunia (regione situata tra Valona e Santi Quaranta) prende nota di monumenti di città antiche ivi esistenti, e coppia un’abbondante serie di epigrafi che ora sarebbero miseramente perdute se non fossero state trascritte nei suoi appunti di viaggio.
Da allora, chi per uno scopo scientifico, chi per un altro, questa nostra vicina regione non mancò certo di visitatori italiani - i quali divennero assai più numerosi in questi ultimi decenni - specialmente nei riguardi della storia naturale (botanica, fauna, geologia, mineralogia, ecc.), della letteratura, della linguistica, della storia, del folklore, ecc. non mancarono certo neanche le ricerche archeologiche le quali sono quelle che maggiormente servono a rafforzare i vincoli di amicizia tra i popoli, per la conoscenza che da esse può scaturire circa la possibilità esistenza di antichi rapporti etnico - culturali.
L’attuale missione
Una nostra speciale Missione Archeologica parti nella primavera del 1924 alla volta dell’Albania, con il precipuo intento di dare uno sguardo al suo soprassuolo soprattutto nei riguardi dell’antichità romane ed anche di quelle preistoriche. Infatti queste avrebbero potuto portare molta luce - come infatti avvenne - sui rapporti di civiltà di parentele intercorrenti tra gli Illiri esistenti nell’altra sponda adriatica e i Messapi, Japigi, Peucezi delle Puglie e gli Euganei del Veneto, tutte famiglie derivanti da un unico ceppo etnico.
A tale scopo venne percorsa in gran parte dell’Albania dai confini settentrionali fino a quelli con la Grecia. E quantunque siano state visitate regioni impervie e di non troppo buona fama, non solo non capitò mai il minimo incidente alla Missione; ma anche i più miseri montanari le portarono un cordiale aiuto, dando così la prova della ben nota generosa ospitalità albanese.
L’anno successivo fu redatto e stipulato un accordo archeologiche con l’Albania, il quale va considerato come un riconoscimento del primato italiano nelle ricerche archeologiche in Albania, nonché un nobile sincero pegno dell’amicizia esistente fra le due Nazioni.
Le origini del popolo albanese
Se le inattese scoperte avvenuto nel campo dell’archeologia classica gettano una viva luce sulle tenebre avvolgenti il passato del popolo albanese, quelle di carattere preistorico sono tra le più notevoli per quel che riguarda sia l’archeologia, sia le origini di questo popolo.
Costume tradizionale maschile ai piedi della collina di Phoinike (1927)
Furono rinvenuti mazzuoli litici, frammenti di vasi di terracotta, fibule di bronzo; tutti oggetti - in verità modesti - ma di un alto valore archeologico. Sono essi infatti i primi che si sono trovati in Albania e costituiscono quindi le prime e sicure testimonianze della fase di origine della vita albanese. In grazie ad essi noi ora possiamo sapere ciò che, avanti la loro scoperta, si ignorava: l’Albania ha avuto anch’essa il periodo preistorico. Gli Illiri stessi - i quali finora erano stati ritenuti i primi abitatori dell’odierna Albania - sono quindi assai più recenti (arrivarono circa 1500 anni più tardi).
Roma in Illiria
Alla ricerca delle antichità romane la nostra Missione ha dedicato una speciale cura, la quale sempre è stata coronata da buon successo, attesa la forte “romanizzazione” che aveva pervaso l’intera Illiria.
Anche nelle regioni più remote - ove non si sarebbe pensato che la coltura romana potesse esser giunta - si incontrarono facilmente delle attestazioni, che tempo e uomini erano entrati in gara per distruggere ma che non sono riusciti a far scomparire.
Roma costruiva per l’eternità!
Testa di Augusto giovane (foto Luigi M.Ugolini)
Si tratta le volte di monumenti più o meno conservati; altre volte di cippi innalzate alla memoria di dignitari romani (di questi esistono pure statue onorarie); qua e là si vedono i resti di costruzioni ed opere di pubbliche utilità; infine non è stato certo raro il caso di incontrarsi in sconnesse lastre di Via Egnatia, congiungere Durazzo con Tessalonica (Salonicco). Sovente però - ma tuttavia non meno espressivo - dell’attività romana resta soltanto il ricordo delle epigrafi o il nome lasciato alla località.
Erede della grandezza di Roma, anche la Serenissima beneficio grandemente le genti della sponda orientale dell’Adriatico basta ricordare l’aiuto dato da Venezia agli albanesi guidati da Scanderberg durante l’epica lotta sostenuta contro i Turchi che iniziavano la loro sanguinosa invasione in questa regione balcanica.
Archeologicamente parlando molte sono le tracce veneziane che si incontrano in Albania. In generale sono castelli, opere scultoree, epigrafi, monete, ecc. Anche i grandi ulivi disseminati lungo la costa sono di età veneziana.
Gli scavi di Feniki, una delle più vaste acropoli del mondo classico
Incoraggiata dal buon esito dell’esplorazione, la Missione passò alle ricerche del sottosuolo, allo scopo di portare luce nuova e sicura su interessanti questioni albanesi. Fu scelto come luogo di ricerche l’acropoli di Feniki.
La collina ed il villaggio così denominati giacciono nell’Albania Meridionale, a tre ore circa di cammino da Santi Quaranta. La collina è di forma molto allungata, con pianoro alla cima. Questo è circondato da numerose mura di cinta, a diversi ricorsi che danno così il luogo ad una delle più fortificate e più vaste acropoli del mondo classico.
Si pensi infatti che essa è lunga più di due km, e qualcuno dei blocchi maggiori componenti le mura può oltrepassare i 200 quintali di peso!
Ugolini a Phoinike nel 1926)
Antichità greche
Da uno scavo di un acervo di terreno venne alla luce un piccolo ambiente, di pianta rettangolare. È esso un “thesauròs”, ossia una di quelle costruzioni che in età classica venivano costruite per scopo religioso oppure pubblico. Quattro colonne, raddrizzate in alto, sono di età romana e vi trovarono impiego quando in età bizantina il “thesauròs” subì delle trasformazioni, come dimostra l’anta destra dell’ingresso, costruita rozzamente con materiale cementante. Il “thesauròs” infatti fu trasformato in battisterio, di cui è ancora conservata la vasca per il rito battesimale ad immersione.
Scavi al tempio in antis (Thesauròs) a Phoinike (1926)
A destra di questo ambiente è posta una gradinata la quale deve essere considerata quale un lungo sedile, a motivo della differente altezza dei gradini. La tecnica veramente fine impiegata per la lavorazione dei blocchi (questi sono minutamente martellati, hanno all’intorno uno stretto listello, e sono provveduti di bugne di presa lasciate poi a scopo decorativo), inoltre la buona messa in opera, infine la estetica ripartizione delle pareti in tante zone fanno di questo bell’insieme un piccolo, a fine gioiello dell’arte greca del IV secolo a. C. Sullo sfondo del rude scenario dei monti albanesi questa elegante opera delle mani dell’uomo risalta ancor più in tutta la sua bellezza.
Vestigia di Roma
Ottenuto questo fortunato esito nel campo dell’arte greca si passò alla ricerca delle vestigia di Roma antica, poiché sembrava ben naturale che anche in questa età fossero state costruite opere notevoli e le quali dovevano pur restar tracce.
Un piccolo rudere di muro che, da poco affiorava dal suolo, mi appariva d’età romana diete la figlia lo scavo. Si cominciò col far seguire il muro dalle due sue parti, e risultò così che si trattava di una vasta esterna romana. Questa cisterna è di forma pressoché quadrata, i muri misurano 19 metri di lato e ora sono alti 5 metri.
Scavi di Ugolini a Phoinike (1926): la cisterna romana
Essa è quindi la costruzione antica meglio conservata in tutta l’odierna Albania. Nell’interno poi si innalzano nove pilastri per reggere la volta di copertura. I muri nella faccia interna della cisterna sono intonacati di ottima materia cementante qua e là ancora posto. I muri hanno un nucleo a sacco e sono rivestiti di opus incertum suddiviso in zone da ricorsi di quattro filari di mattoni; perciò tale cisterna di età imperiale romana già avanzata, ed è anche una bella grande opera di utilità pubblica quivi lasciata dai Romani. Essa era capace di contenere circa 1 milione e mezzo di litri d’acqua. Durante lo scavo furono rinvenuti vari oggetti, dei frammenti architettonici e scultore, tra i quali è degno di nota un torso efebico eseguito in calcare di Kanina (Valona). Esso è una non spregevole opera locale, ispirata all’arte greca alla fine del IV secolo a. C.
Si approfondì lo scavo anche all’esterno della cisterna perché erano stati notati dei blocchi ancora imposto. Così vennero alla luce i resti di un’altra cisterna assai anteriore alla precedente, probabilmente della fine del V secolo a. C., ed anche una scaletta incorporata nel muro di detta seconda cisterna, e quindi anch’essa del V secolo a. C.
La necropoli
Anche nell’estate del 1927 la nostra Missione, più agguerrita come mezzi e come personale, continuò le sue ricerche archeologiche in Albania, riprendendo lo studio i lavori sull’acropoli di Feniki.
Sono stati condotti a termine gli scavi iniziati e non completati l’anno precedente, ed è pure stato fatto qualche saggio di scavo qua e là, lungo il percorso delle mura di difesa della città.
Ma le ricerche principali furono eseguite nella necropoli. Dopo averla individuata si è proceduto alla sua esplorazione la quale è stata fortunata, poiché si sono ritrovati vari tipi tombali. Uno di essi è a inumazione, col cadavere disteso, fornito di corredo funebre è circondato da sei grandi lastre di bella pietra formati da una specie di cassa.
Saggi di scavo nella necropoli ellenistica di Phoinike (1927)
Questo primo tipo e greco, mentre ve n’ha uno prettamente di età romana, e cioè pure a inumazione, ma col defunto privo di corredo e protetto da tegoloni e mattoni. Infine più interessante degli altri è il tipo di tomba a incinerazione, con le ossa del morto combuste e messe dentro un urna di terracotta rettangolare, quasi a forma di capanna, e protetta all’intorno da una cassetta formata di grossi mattoni di rilevanti dimensioni. La suppellettile funebre era collocata fra l’urna e la protezione di mattoni. Le tombe avevano alle volte ancora imposto la stele sepolcrale; una reca il nome di un siciliano: Escrione, figlio di Filino, nato a Siracusa. In generale l’età del primo e del terzo tipo di tombe si aggira verso il III secolo a. C.
Gli scavi a Butrinto che fu sosta del viaggio di Enea in Italia
La scoperta di Butrinto
In un primo tempo, durante la campagna di esplorazione archeologica della parte meridionale dell’Albania, campagna svoltasi nella primavera del 1924, la sorte mi era avversa. La più giorni mi affannavano inutilmente a ricercare la sede dei regni di Eleno, situati nell’antica Caonia - odierna regione di Santi Quaranta - dei quali parlano diffusamente Virgilio, Ovidio ed altri scrittori antichi. Lo sconforto stava per assalirmi e farmi desistere dall’impresa che, ormai, cominciava a diventarmi troppo amara per le delusioni patite e troppo dura per i disagi di ogni genere quali andava incontro quotidianamente.
Ma poi sorse l’aurora infortunato giorno. Infatti partito di buon mattino per i consueti giri di sopralluogo, ebbe la fortuna di trovare un’acropoli arcaica, nella collina denominata Kalivò, presso il lago di Vivari. Questa però non poteva essere l’antica Buthrotum di cui parla Virgilio a causa della mancanza di corrispondenza con alcuni particolari topografici troppo chiaramente espressi dal poeta. Tale gioia mi fu riserbata nel pomeriggio dello stesso giorno, scoprendo i ruderi sorgenti su una collinetta posta non lungi da Kalivò eppure presso lo stesso lago di Vivari. Molte ragioni, che non sto qui ad enumerare, provano che le rovine di questa acropoli sono quelle dell’antica Buthrotum. I Veneziani che qui costruirono un castello, corruppero il nome di Buthrotum in Butrinto e i pastori chiamano Vuthrotò quella collina.
I componenti della Missione Italiana durante lo scavo del teatro di Butrinto (1932). Ugolini è seduto in basso, il primo a sinistra nel gradino subito sopra è Dario Roversi Monaco.
A mezzogiorno poi il giorno seguente ero in contemplazione di una terza antica città del tutto ignorata, situato su di una erta collina denominata Monte Aetòs, circondata da mura di tipo poligonale. In due giorni avevo scoperto ventre antiche città sconosciute. Il terzo giorno inoltre, rintracciare altri due recinti di mura appartenenti al III secolo a. C.
Cosa naturale a prevedersi, mi sorse immediato e vivo il desiderio di eseguire degli scavi nella seconda delle città morte per farla rivivere. Ciò però avvenne soltanto quattro anni dopo (1928), e posso affermare che pochi luoghi, i quali sono stati fatti oggetto di scavo archeologico, hanno dato nei primissimi loro saggi di esplorazione dei risultati così buoni come quelli ottenuti a Butrinto; d’altra parte, si può pure aggiungere che per poche località trovasi - come per Butrinto -un substrato storico rivestito di una smagliante suggestiva veste di tinta poetica e leggendaria.
Occorre risalire agli scavi delle città di Troia, di Micene, di Tirinto, per trovare comparazione analoghe.
Butrinto, l’epopea Omerica e Virgilio
E in realtà, la città di Butrinto ha, con i luoghi ora ricordati una stretta affinità poiché anche essa si ricollega alla più grande epopea dell’antichità: quella della lotta sostenuto dai Greci contro i Troiani per il ratto di Elena, lotta terminata, come è noto, con la distruzione di Troia.
Ma mentre il ciclo delle gesta storico-leggendarie più propriamente troiane trovò il suo cantore in Omero, Butrinto invece, e gli avvenimenti che ivi si svolsero, furono narrati da Virgilio (Aen., III, 293 e segg.).
Canta infatti questo soave ed epico poeta della Roma imperiale come Enea, peregrinante dolorosamente per tanti mari e con tanti pericoli in attesa che i fati si compissero e potesse far sorgere in Italia le premure di una “nuova Troia”, giunge a Butrinto.
… “et celsam Buthroti accedimus urbem”.
Qui con grande sua meraviglia, perché il territorio era greco, incontra il troiano Eleno (figlio di Priamo) che si era sposato con Andromaca (vedova di Ettore) ed era divenuto re di questa regione (la Caonia) dopo la morte di Pirro Nettolemo (figlio di Achille) che quivi li aveva condotti prigionieri. Eleno aveva costruite in questo luogo una rocca che in piccolo riproduceva la sua antica città, e con nomi appunto Troiani aveva denominato la fortezza, le porte, i fiumi, ecc.
"…La Caonia…
che dal nome di Caone troiano
così l’ha detta, come disse ancora
Ilio da l’Ilo nostro questa rocca
che qui su vedi; è Simoenta e Pergamo
queste picciole mura e questo rivo".
Così dice Andromaca ad Enea. In sontuosi palazzi, forniti di colonnati è servito regalmente “con vasi d’argento e coppe d’oro”, Enea resta due giorni e ascolta da Eleno alcuni latticini che l’incoraggiano poi ricevuti molti ricchi doni, ringraziando e augurandosi di costruire in Italia una città che, come Butrinto sia simile a Troia, attraverso lo stretto Adriatico (“brevissimus undis”), accompagnato da un augurio che suona di ammonimento anche oggi:
“come la nostra Esperia e il vostro Epiro
si son vicini, e come ambe le terre
fien vicine e cognate, ad ambe avranno
Dardano per autore, e per fortuna
un caso stesso; così d’ambedue
mi proporrò che d’animi e d’amore
siamo una Troia: e ciò perpetua cura
sia de’ nostri nepoti “.
Le escavazioni archeologiche
Poche località sono così pittoresche come quella di Butrinto. Su una piccola lingua di terra che si inoltra nel lago omonimo (detto anche di Vivari) s’erge ripida una collinetta ricoperta di verdeggiante bosco, tra il quale, qua e là riemergono cenerognole rovine di muri da un lato il panorama montano, da un altro lato invece è pianeggiante, e da un terzo, al di là dello stretto canale del Mare Ionio, appare, azzurra visione, l’isola di Corfù. Qui, proprio sulla vetta dell’acropoli, la Missione piantò le sue tende nel marzo del 1928. Alacremente ci si mise all’opera e dopo non molti colpi di piccone, ma superando difficoltà gravi varie, cominciamo a vedere apparire i primi risultati.
Le escavazioni
Enea, dopo i primi convenevoli con Eleno è Andromaca, entra nell’Acropoli di Butrinto:
“… Entrano al fine
ne la picciola Troia, e con diletto
un arido ruscello, un cerchio angusto
sentii con finti rinnovati nomi
chiamar Pergamo e Xanto…”
E aggiunge:
“…e de la Scea
porta entrando abbracciai l’amata soglia”.
È facile comprendere come una delle prime nostre cure sia stata quella di fare saggi di scavo qua e là lungo il percorso delle mura ti età classica, per vedere se poteva esistere una porta, la quale in età classica potesse corrispondere a quella ricordata da Virgilio. Porta che Virgilio deve aver visto, poiché a mio avviso, egli deve aver visitato Butrinto, per poterne parlare con tali particolarità topografiche. (Era inoltre un luogo troppo caro a lui e alle gesta cantate, troppo legato la primitiva storia di Roma e troppo vicino a brindisi, per non recarsi a vederlo). La ricerca in un primo piano presentavasi di esito dubbio ma ora credo di poter affermare che la porta è stata trovata: essa giace anche a “sinistra” dell’insenatura ove sorgeva il porto antico. Tale ingresso alla città prima dello scavo era del tutto interrato. Ora invece stato riaperto, e si è mostrato assai notevole. Misura esso 5 m di altezza, presa però questa dalla soglia originale che trovasi a un metro più basso del lastricato ora esistente, il quale invece di età veneziana. Inoltre esso è perfettamente conservata in mostra il cielo ancora provveduto di grandi architravi e mensole di sostegno.
Durante le ricerche nel percorso delle mura è venuta alla luce un’altra porta, di minori dimensioni della Pseudo Porta Scea, ma interessante perché all’architrave scolpito. Vedesi un leone che sta divorando un toro.
La “Porta Scea” ricordata da Virgilio. (foto Luigi M.Ugolini)
È diretta greca più tarda (III secolo a. C.) un teatro la cui scena invece è di buona età romana imperiale. La gradinata è ben conservata e in fronte (l’altra è ancora interrata) reca delle iscrizioni greche, scritte minutamente, ben leggibili e assai numerose (alcuni metri quadrati di superficie). Esse contengono decreti di vario genere, alcuni di questi molto interessante per la storia.
Il fondale della scena era fornito di nicchie. Ai piedi di queste, a 5 metri di profondità dell’attuale soprassuolo, sono state trovate bellissime statua, che completano la serie di quelle rinvenute pure a Butrinto, in altri monumenti. Esse sono di arte greca e romana, tutte di squisita fattura, e alcune ben conservate. Ricorderemo una grande statua marmorea (alta circa m. 2,50) ben conservata, con un viso di dolce espressione: è la Grande Ercolanense di Prassitele. Un’altra pure femminile e acefala, di età romana augustea, di ottima fattura.
Fu pure trovata qui nel 1928 la statua della “Dea di Butrinto” divenuta assai nota per la sua bellezza e per il fatto che la testa - e di stile diverso dal corpo, poiché la prima è prassitelica mentre il secondo è fidiaco - fu donata da S. M. Zog I a S. E. Mussolini.
Età romana
Naturalmente la Missione ha rivolto la propria attenzione anche ai monumenti di età romana, e buoni furono i frutti che se ne raccolsero.
Così vicino al teatro è stato scoperto un grande pavimento di un ambiente (forse il frigidarium) delle terme romane. Tale pavimento è a mosaico, ben conservato a tessere di diversi colori formati un grazioso disegno geometrico. A ridosso del teatro è venuto alla luce un sacrario votivo a Esculapio, composto di due cellule. Nella più interna si sono trovate statue, resti di iscrizioni dedicatorie e la stipe votiva. Cioè una raccolta di circa 350 ex voto molto vari, di buona terracotta, donati da coloro che avevano recuperata la salute, al dio Esculapio, in segno di gratitudine. Pure non molto lontano di cui in mezzo a un bosco in grande parte di alloro, sono stati rimessi allo scoperto i resti ancora notevoli di un Ninfeo, con una vasca a pianta semicircolare, e con muro di spalliera alto 4 m e provveduto di tre nicchie.
La ricerca delle antichità del Basso Impero Romano hanno dato dei risultati anch’essi di prim’ordine. Una ben tracciata trincea mise allo scoperto un tratto di pavimento a mosaico. A scavo completo rivide la luce la parte inferiore di un battistero rotondo (forse del V secolo d. C.) Con il pavimento a mosaico.
Il teatro di Butrinto poco dopo il completamento dello scavo
Venezia succedette a Bisanzio nel dominio dell’Albania, e come negli Archivi della Serenissima Repubblica vi sono molti documenti che riguardano Butrinto, così qui esistono grandi ruderi veneziani. Troneggia sull’acropoli castello veneziano in mezzo a boschetti di alloro e di ulivo: la gloria la pace sui resti della lotta!
L’importanza e il significato degli scavi
E dalla città dei vivi lo scavo è stato esteso a quello dei morti. Rintracciata che fu la necropoli, si passò alla sua esplorazione e fu aperto un rilevante numero di tombe. Allora età e varia, e va dal periodo ellenistico fino ai primi anni del secolo passato. Degna di nota è la suppellettile di alcune tombe, la quale si compone di vasi, bronzi, ossi lavorati, vetri - in qualche caso ben conservati - ed alcuni oggetti ornamentali di oro.
A queste escavazioni ne devono essere aggiunte altre, le quali, in sé stesse considerate sono di un certo valore, sono il secondo ordine rispetto a quelle fin qui ricordate. Ogni trincea, che a dire il vero fu motivata da speciali indirizzi, diete qualche risultato. Ora saranno stati piccoli resti di mosaico; ora tratti di muro greco, oppure ruderi di costruzioni romane; qua e là avanzi di affreschi bizantini e veneziane; sempre qualche scoperta si è fatta.
Il monumento di Luigi M. Ugolini eretto nei pressi degli scavi di Butrinto (poi distrutto)
Finalmente ricorderemo che fu trovato anche molto materiale e epigrafo, numismatico, ceramico, vitreo ecc.
In tal modo gli scavi hanno ridonato vita a Butrinto, che ormai non era altro che un nome ricordato in qualche storia. Sia pure in forma di rovina, ora una parte della città ritorna vedere il sole che già un dì la vide rifulgere di vivo splendore. E non c’è motivo di dubitarne che le future campagne di scavo daranno risultati anche migliori.
Ma la maggior importanza è determinato dal fatto che, ancora una volta, l’archeologia abbatte l’ipercritica e ci rivela che la leggenda ha una base storica. Non più a proposito potevano essere compiuti questi scavi per il secondo millenario virgiliano testé trascorso.
[1] Studi albanesi, volume I – 1931. Roma - Istituto per l'Europa orientale.
0 Commenti