Re Zog sposo novello fugge dall'Albania con Geraldina, la moglie ungherese, e il figlio nato da due giorni[1]

Per controbilanciare le annessioni fatte dalla Germania, Mussolini dà il via al piano di Ciano per la soluzione del problema albanese. Il 7 aprile 1939 le truppe italiane, senza incontrare serie resistenze, sbarcano in Albania e l'8 occupano Tirana. Da “L'Italia a Berlino”

M. MAGISTRATI

In questa atmosfera, che chiaramente indicava come le intese tra i paesi del blocco democratico divenissero maggiormente precise, Roma si decise a “varare” il suo colpo sull' Albania, già studiato da varie settimane e sempre rinviato per l'incertezza, ed il modesto entusiasmo per esso dimostrato da Mussolini.
L'iniziativa non venne concordata con i tedeschi ed anzi si sviluppò all'infuori di qualsiasi precedente intesa con Berlino, la quale era in quel momento non favorevole ad un immediato turbamento dell'ordine balcanico. Se ne dovette però far parola nel convegno che, dopo vari rinvii, ebbe effettivamente luogo a Innsbruck, il 5 aprile, tra il generale Keitel ed il sottosegretario Pariani con la partecipazione degli addetti militari Marras e Rintelen e di alcuni esperti. 

Matrimonio di re Zog a Tirana, sovrano impopolare sordo alle necessità dei suo sudditi.

Altro accenno, all'ultimo momento, ne fece Attolico a von Ribbentrop il quale - secondo quanto ebbe ad annotare Ciano - volle dichiarare “di vedere con simpatia l'azione a Tirana perché ogni vittoria dell'Italia era un rafforzamento della potenza dell’Asse”. Nella serata del 6 aprile Ciano telefonò alla nostra ambasciata per annunziare che, dinanzi all'atteggiamento del re Ahmed Zog, le truppe italiane sarebbero sbarcate l'indomani all'alba sulla costa albanese per procedere all'occupazione del paese. Belgrado - aggiungeva il ministro - era stata preavvertita e sembrava prendere l'importante iniziativa italiana con “spirito di collaborazione”. Le cose si svolsero, effettivamente, con grande rapidità e, dopo alcune prime battute di incertezza al momento dello sbarco, Valona, Durazzo e San Giovanni di Medua vennero occupate, senza grave resistenza. nella stessa giornata del 7 aprile. Subito dopo Ahmed Zog abbandonava il paese oltrepassando il confine greco, e le truppe italiane, alle quali si era unito lo stesso ministro Ciano, giunto in apparecchio da Roma, entravano in Tirana. Dopo quattro giorni una assemblea albanese, formata di elementi nettamente orientati verso l'Italia, decideva secondo un programma formulato a palazzo Venezia di porre l'Albania sotto lo scettro di re Vittorio Emanuele con la costituzione di una “unione personale” tra i due paesi: soluzione che, in quel momento, apparve, nei confronti di quanto era avvenuto a Praga, formalmente alquanto moderata in quanto sembrava, almeno al primo momento, non voler imitare l'istituzione del “protettorato” imposto dal Reich alla Boemia ed alla Moravia. La reazione europea al colpo di testa italiano fu di diversa natura. La Germania, come ho già accennato, comprese come le fosse utile un'improvvisa ed inattesa solidarietà italiana nella politica della forza da essa violentemente instaurata in Europa. Essa quindi avallò senza indugio quanto era avvenuto e ne approfitto, anzi, per accrescere il valore della sua azione nei Balcani e soprattutto a Belgrado. Colà le preoccupazioni erano di vasta portata ed un apporto della Germania per moderare l'iniziativa italiana era senza dubbio - come dimostrò la visita fatta poi a Berlino il 25 aprile dal nuovo ministro degli Esteri Cinkar Markovic - apprezzato e desiderato. La Francia, in fondo, si mostrò, particolarmente nei primi momenti, piuttosto tranquilla e tacitamente soddisfatta di vedere l'attenzione e le energie italiane rivolte ormai ad altro campo, lontano, almeno per un certo periodo, da altri obiettivi. La Jugoslavia, che indubbiamente era la maggiore interessata al colpo di scena albanese, fece a sua volta buon viso a cattivo gioco e si lasciò in certo modo convincere dalle assicurazioni italiane. A Venezia poi, il 22 aprile essa, per bocca dello stesso Cinkar Markovic colà incontratosi con Ciano, dichiarò di accettare il fatto compiuto. Dove invece il colpo albanese provocò reazioni del tutto negative ed ostili fu proprio tra gli anglosassoni.

Il 25 marzo viene inviato a Tirana uno schema di trattato che ha lo scopo di costringere l’Albania ad accettare il protettorato italiano. L’ultimatum scade il 6 aprile. Re Zog (qui il giorno delle nozze) tergiversa.

In America l'occupazione a mano armata di un piccolo e disarmato paese apparve come una nuova e convincente prova della brutalità e della inumanità dei sistemi usati dalle nazioni dell'Asse, dominate dallo spirito fascista. E fu quindi dalla grande maggioranza della pubblica opinione data anche l'esistenza negli Stati Uniti di alcune collettività di sangue albanese - biasimata e condannata. La circostanza inoltre che quella azione, anche se poco cruenta, fosse stata iniziata proprio nel giorno del venerdì santo, considerato come sacro alla preghiera ed alla espiazione, provocò negli ambienti delle chiese americane una ondata di disapprovazione che doveva avere, nella valutazione futura della situazione e degli atteggiamenti italiani, conseguenze di notevole portata. A Londra, la reazione ebbe aspetto maggiormente politico. Il governo di Chamberlain vide, nell'occupazione dell' Albania, un'offesa, anche se non addirittura una rottura, apportata inopinatamente dall'Italia, di quell'accordo di equilibrio mediterraneo che era stato uno dei principali elementi dell'intesa anglo-italiana dell'aprile del 1938. E, per bocca dello stesso premier, protestò per questo nuovo “uso della forza” in Europa. Similmente, infine, si espresse dinanzi ai Comuni contro l'atto italiano, Winston Churchill, il quale stimò opportuno alludere all'Italia in termini destinati ad apparire particolarmente sgradevoli alle orecchie di Mussolini: “Nonostante la cattiva fede” egli disse “con la quale siamo stati trattati dal governo italiano, non sono ancora convinto che l'Italia, ed in particolar modo la nazione italiana, abbia deciso di intraprendere una lotta mortale contro la Gran Bretagna e la Francia nel Mediterraneo. Va ricordato che, se noi abbiamo fatto nei giorni scorsi un'esperienza spiacevole nei riguardi del governo italiano, la Germania ha fatto una esperienza ancora peggiore della politica italiana allo scoppio della grande guerra ne! 1914. Allora fu un aspetto gradevole nei riguardi britannici, ma la Germania ebbe a suo tempo un'impressione alquanto diversa per quanto avveniva”. Il 15 aprile, proprio mentre queste varie reazioni europee andavano manifestandosi, il maresciallo Göring, che aveva anche compiuto, quale ospite di Balbo, un breve viaggio in Libia, si decise a lasciare la sua residenza “di riposo” di San Remo per compiere una nuova visita a Roma, Questa visita, per l'interesse e l'importanza del momento, sembrava destinata ad assumere un particolare significato in quanto, agli occhi dei terzi, apparve come un gesto tedesco inteso a porre in rilievo l'adesione e l'approvazione “ufficiale” del Reich a quanto era avvenuto a Tirana. La presenza di Göring nella capitale italiana diede luogo alla abituale serie di manifestazioni e di incontri. Il sovrano offri per lui une colazione al Quirinale alla quale prese parte anche Mussolini. E questi, a sua volta, accolse l'ospite, nella stessa serata, ad un grande pranzo imbandito nelle sale di palazzo Venezia. Tra le due manifestazioni conviviali Göring fu fatto assistere, nell'aula di Montecitorio, alla seduta indetta per esaltare l'azione albanese, ed al discorso politico che, nell'occasione, il ministro Ciano pronunzio alla presenza anche della delegazione giunta da Tirana per offrire la corona di Albania a Vittorio Emanuele. Nella realtà la permanenza in Italia del maresciallo germanico non provocò alcuna situazione nuova nel quadro dei rapporti italo-tedeschi né alcuna esposizione effettiva di programmi e di intendimenti. A Mussolini ed a Ciano però non sfuggi, in quelle conversazioni, il tono di durezza e di acrimonia usato dall'ospite nel dipingere le relazioni tra Berlino e Varsavia, Dalle parole di Göring che, come osservò Ciano, molto ricordavano quelle altre volte usate nei confronti dell'Austria e della Cecoslovacchia, apparve abbastanza chiara la circostanza che i tedeschi, anche se non ancora decisi a spingere le cose fino ad un conflitto armato, rivolge- vano ormai direttamente contro la Polonia la loro politica di espansione. Nel corso di quella visita mi trovai a Roma ed ebbi così occasione di personalmente constatare, ancora una volta, come, in fondo, allorché i dirigenti maggiori della Germania e dell'Italia direttamente si incontravano, ciascuno finiva per rimanere anche se dopo una serie di reciproche e più o meno anodine esaltazioni delle possibilità e della potenza dell'Asse delle proprie idee. Così anche quei colloqui tra Mussolini, Ciano e Göring non portarono, ripeto, ad alcun pratico risultato né nel campo dei rapporti economici tra i due Paesi, sempre molto complessi e difficili, né nella questione dell'Alto Adige che era sempre più aperta e sulla cui eventuale definitiva liquidazione i tedeschi, per un motivo o per un altro, continuavano sostanzialmente a nicchiare.

Re Zog continua a guadagnare tempo, mentre a Tirana scoppiano i disordini “organizzati” contro la legazione italiana. I nostri connazionali vengono imbarcati sulle navi, secondo quanto afferma il governo italiano, allo scopo di proteggerne la vita. La mattina del 7 aprile avvengono quattro sbarchi sulla costa albanese.
Nella foto: le operazioni a Brindisi dell'imbarco di reparti militari

Sul problema altoatesino fui anch'io convocato a palazzo Venezia, per ricevere direttamente da Mussolini nuove istruzioni, da trasmettere ad Attolico, dato che la situazione, secondo quanto riferiva il prefetto di Bolzano, Mastromattei, non andava affatto migliorando e presentava anzi i sintomi preoccupanti di nuove complicazioni. Trovai Mussolini, all'indomani della conversazione finale con Göring, duro e tagliente nei suoi giudizi circa l'atteggiamento tedesco nei confronti dell'Alto Adige. Si parlava allora soprattutto di un pro- getto, affidato per la sua realizzazione al console generale di Germania a Milano, diretto ad effettuare il riassorbimento da parte del Reich di diecimila cittadini germanici residenti nella provincia di Bolzano. E Mussolini ebbe espressioni di risentimento per la lentezza con la quale esso appariva essere studiato dai tedeschi. Ad un certo momento mi mostrò un'interessante “ordinanza del mercato di Bolzano, emanata nel 1742 di Maria Teresa, in testo bilingue, tedesco ed italiano, testimonianza sicura che anche nel XVIII secolo la nostra lingua era nota ed in uso nell'alta Val d'Adige. In definitiva l'istruzione fu di attirare nuovamente e chiaramente l'attenzione personale dello stesso von Ribbentrop sulla naturale soluzione con il progressivo e sollecito allontanamento da quella provincia degli elementi germanici indesiderabili e perturbatori. La visita di Göring ebbe termine il 17 aprile. Essa concordò, nel tempo, con una iniziativa, di molto interesse, presa dal presidente americano Roosevelt. Questi, approfittando anche dell'emozione prodotta nell'opinione pubblica degli Stati Uniti dalla violenta azione italiana in Albania, si decise ad inviare, il 15 aprile, un suo messaggio personale a Hitler ed a Mussolini per proporre dieci anni di tregua. La procedura, però, usata per tale fondamentale proposta fu, per la verità, alquanto nuova e, per i termini adoperati, poté apparire troppo personalmente ingrata nei confronti dei due dittatori dell'Asse. Roosevelt, infatti, dovendo rispondere del suo atteggiamento ai suoi cittadini la cui convinzione circa la brutalità ed i pericoli dei metodi ritenuti caratteristici dei paesi autoritari era ormai profonda e definitiva rivolse a ciascuno dei due dittatori una troppo categorica, dura e personale domanda così concepita: “siete voi disposto a dare l'assicurazione che le vostre forze armate non attaccheranno né invaderanno il territorio o possedimenti di trentuno stati di Europa e del vicino oriente?”. E quasi ciò non bastasse, i trentuno stati erano nominativamente elencati, uno per uno, ed andavano dalla Polonia e dalla Russia sovietica al Lichtenstein, dalla Francia all'Irak. In caso di risposta affermativa -concludeva il presidente sono sicuro che quegli stati vi potranno dare in seguito la stessa assicurazione. L'iniziativa era, comunque, nella sostanza, di grande importanza. E rivelava, soprattutto, come il governo degli Stati Uniti, abbandonando decisamente, secondo la volontà di Roosevelt, qualsiasi programma isolazionista, intendesse oramai dire la sua chiara parola sulla situazione europea e ritenesse senz'altro due uomini che dirigevano la politica della Germania dell'Italia direttamente e personalmente responsabili delle eventuali perturbazioni nel nostro continente. Essa quindi era un sintomo, di straordinario valore, di cui occorreva, se non altro, tenere grande conto per l'avvenire.
Dei due dittatori il primo a rispondere fu Mussolini. Questi dapprima - come attesta Ciano - voleva addirittura rifiutarsi di leggere il messaggio definendolo “un frutto della paralisi progressiva”. Ma in seguito venne a miglior consiglio. E in un discorso piuttosto abile nell'esaltazione dei lavori pacifici del lavoro italiano pronunciato il 20 aprile, al Campidoglio, per inaugurare i lavori della Commissione preposta all'organizzazione della progettata Esposizione Universale di Roma del 1942, si rivolse indirettamente, senza rompere tutti ponti, al presidente americano, affermando: “E somma mente ingiusto, e da ogni punto di vista ingiustificabile il tentativo di porre i paesi dell'Asse sul banco degli accusati. Noi comunque non ci lasciamo impressionare da campagne di stampa, vociferazioni conviviali o da messaggi messianici perché sentiamo di avere la coscienza tranquilla e uomini e mezzi per difendere, con la nostra, la pace del mondo”.

L'aereo dei “Delfino sorvola il porto di Durazzo occupato da un reggimento di bersaglieri.
Ciano, tenace sostenitore dell'impresa, vela due volte sul dello sbarco e Tirana, dove atterra l’8 aprile 1939. Nella foto: lo sbarco dei bersaglieri nel porto di Durazzo.



A rimorchio di Adolf Hitler

Il nuovo colpo tedesco in Cecoslovacchia fa temere a Mussolini il nazismo intenda spingersi in Croazia e sull'Adriatico. E l'occupazione dell'Albania torna a essere presa in esame. C'è anche nel duce il desiderio, per pareggiare i conti con l'alleato, di ottenere un apparente successo con la nuova impresa. Ma per il momento soprassiede, conscio che nell'opinione pubblica mondiale non può controbilanciare con l'Albania l'annessione da parte della Germania di un territorio ricco. come la Boemia. Teme inoltre di sconvolgere il precario equilibrio della Jugoslavia. II 20 marzo 1939, tramite l'ambasciatore tedesco, riceve da Hitler l'assicurazione che i tedeschi non hanno alcun interesse per l'Adriatico. Ma il 23 marzo il Führer, cogliendo l'occasione del ventesimo anniversario della fondazione dei fasci, indirizza un messaggio al duce, riaffermando la sua immutabile amicizia, fino alle estreme conseguenze”.
E in quei giorni il duce cede all'antico desiderio di Ciano: l'occupazione dell'Albania. L'Albania è già di fatto, se non di diritto, un protettorato italiano, e la sua conquista non è essenziale. Re Zog I ha contratto obblighi verso Mussolini per la protezione che ne ha ricevuto quando era primo ministro e quando, ribelle, aveva rovesciato il governo legittimo per mettersi sul trono. Sotto la protezione di numerosi trattati politici e militari con l'Albania, il fascismo ha acquistato grossi interessi finanziari nel paese, soprattutto lo sfruttamento del petrolio albanese. Tuttavia, non ci si è serviti di questa posizione per dare uno sviluppo al paese: non si è pro- mossa l'istruzione, costruito strade, aiutato l'agricoltura. Nel 1939 l'Albania è ancora un paese primitivo, con scarsa popolazione, in gran parte costituita da fierissime tribù che vivono sulle montagne in uno stato seminomade. La società è organizzata in un sistema quasi feudale. Al vertice c'è Zog, sovrano mediocre e corrotto, impopolare fra le tribù, alle cui necessità è insensibile.


L'OPERAZIONE risulta poco brillante e mette a nudo l'inefficienza del nostro apparato militare. Così l'occupazione di Tirana prevista per il 7 aprile viene ritardata per 24 ore. Il duce è furioso perché la stampa francese scrive che gli italiani sono stati battuti dagli albanesi. La fuga di re Zog verso la Grecia fa cessare i pochi focolai di resistenza sulle montagne. Scrive Galeazzo Ciano: “Vado tra gli ufficiali e la truppa. Sono tutti fierissimi dell’impresa”. Nelle foto: uno sbarco di truppe e l’occupazione di Durazzo.

Da un anno Ciano progetta di sfruttare questa impopolarità per rovesciare Zog e legare il proprio nome a una grande avventura. A un certo momento pensa persino di far assassinare il sovrano albanese. Mussolini decide allora di accelerare i tempi dell'operazione, fissandola per la settimana di Pasqua. Il 12 marzo 1939, giorno dell'incoronazione di Pio XII, il duce convoca il generale Pariani, sottosegretario alla guerra, capo di stato maggiore ed esperto di cose albanesi, e gli affida il compito di predisporre l'impresa. Pariani si impegna a occupare Tirana in quarantotto ore: chiede di disporre di una divisione e di reparti complementari. Già re Zog viene sollecitato ad aderire a una proposta di protettorato italiano, quando il 28 marzo 1939 le truppe di Francisco Franco occupano Madrid.
Dopo tre anni, la guerra di Spagna è terminata e finisce anche l'emorragia di forze italiane verso quel fronte. L'impresa albanese diventa più agevole. Ciano dà istruzioni all'ambasciatore italiano a Parigi di motivare l'occupazione con la necessità di equilibrare l'invadenza tedesca nei Balcani. La Germania, informata dell’imminenza dell'attacco, non oppone obiezioni. II 5 aprile 1939 il duce fissa per il 6 la scadenza di un ultimatum trasmesso a Zog. Il 7 dà il via al corpo di spedizione, comandato dai generali Messe e Guzzoni.
Non è un'operazione brillante, per il funzionamento insoddisfacente dell'apparato militare. Il 7 aprile 1939, venerdì della settimana di Pasqua, le truppe sbarcano in Albania e l'8 occupano Tirana e Elbassan, Re Zog fugge in Grecia, con la moglie ungherese Geraldina e il figlio di due giorni: non dimentica il tesoro dello stato. Tre settimane prima Ciano scrive nel suo Diario: “Non è ancora possibile prevedere quale sarà lo sviluppo degli eventi, ma sembra probabile che Zog ceda. Oltre tutto c’è un fatto familiare sul quale faccio grande segnamento: la prossima nascita del figlio. Zog ama moglie e in genere tutta la famiglia: credo che preferirà assicurare ai suoi congiunti un avvenire di tranquilli E francamente non immagino Geraldina, con pancetta di nove mesi, peregrinare combattendo per le montagne del Mathi o della Mirdizia”.
Due volte Ciano vola sul luogo dello sbarco: atterra a Tirana mentre le truppe italiane arrivano in città. Il 12 aprile una improvvisata costituente albanese vie “persuasa” a offrire la corona d'Albania al re d'Italia che all'impresa si è sempre tenacemente opposto. Il 13 aprile il duce afferma dal balcone di palazzo Venezia “Il mondo è pregato di lasciarci tranquilli, intenti a nostra grande e quotidiana fatica. Il mondo deve ogni caso sapere che noi, domani come ieri, come sempre, tireremo diritto”. E Grandi da Londra: “Tu duce fai camminare la rivoluzione col moto fatale e spietato della trattrice. Dopo la vendetta di Adua, la vendetta di Valona… Questa conquista fa dell'Adriatico, per la prima volta, un mare militarmente italiano e apre all’Italia di Mussolini le antiche strade delle conquiste romane in oriente”.
La reazione all’estero è meno violenta di quella seguita alla occupazione della Cecoslovacchia. La Jugoslavia non protesta, Londra sembra soddisfatta della spiegazione di Mussolini, che cioè l’occupazione non cambia le cose, essendo da anni l'Albania nella sfera influenza italiana. Il 15 aprile Roosevelt invia un messaggio a Mussolini e ad Hitler perché si impegnino a non aggredire per dieci anni i trentuno stati che egli elenca; in cambio gli Stati Uniti avrebbero fornito il loro aiuto per trovare una soluzione al problema del disarmo e alla questione dell'accesso alle materie prime.
Quando Ciano porta il messaggio al duce, questi dapprima rifiuta di leggerlo, poi lo definisce "un frutto della paralisi progressiva". Risponde indirettamente a Roosevelt solo il 20 aprile, con un discorso agli organizzatori dell'E 42 nel quale afferma che il progetto dell'esposizione costituisce una prova delle sue intenzioni pacifiche. Ma la pace, ormai, è una illusione. Proprio al ritorno dalla cerimonia, l'ambasciatore Attolico segnala da Berlino bellicose intenzioni dei nazisti sulla Polonia. Intenzioni ribadite del resto da Hermann Göering al duce, in occasione della visita effettuata a Roma il 14 aprile 1939, per esporre le vedute di Hitler sulla situazione europea.
Eppure, in Italia il pensiero di una guerra è lontano. In questo periodo si fa gran parlare della riforma della scuola voluta da Bottai. Il suo proposito è quello di riformare prima di tutto gli studi medi, affinché rispondano "alle nuove esigenze culturali, sociali ed economiche della vita italiana nel regime dei fasci e delle corporazioni". Il progetto, approvato fin dal 1938, viene definitivamente reso esecutivo dal gran consiglio il 15 febbraio 1939. La riforma comincia ad avere parziale applicazione con l'anno scolastico 1941-42. La "Carta della Scuola" si compone di ventinove dichiarazioni per il nuovo ordinamento, dalle elementari all'università. È obbligatorio frequentare, oltre la scuola, la GIL e il GUF, tutte e tre concepite come "strumento unitario di educazione fascista"; si afferma inoltre che "nell'ordine fascista, età scolastica ed età politica coincidono".
In quell'anno, il 1939, si parla insistentemente di un declino fisico di Mussolini. Il nuovo ambasciatore francese André François-Poncet nota che il duce è "in un periodo di decadenza intellettuale". Ettore Muti, il futuro segretario del partito, confida agli amici di avere trovato il duce stanco e invecchiato. Arturo Bocchini, capo della polizia, insiste presso Ciano perché Mussolini sia sottoposto ad una visita medica rigorosissima. Ma sono voci di palazzo, che non a caso nascono nel momento più delicato che il regime attraversa.
L'inutile impresa albanese ha messo a nudo la spaventosa impreparazione dell'Italia. Mussolini si illude ancora sulle possibilità italiane, non vuole guardare in faccia la realtà. Dice Ciano nel suo Diario: "Ma il duce che fa? Si concentra piuttosto in questioni di forma: succede l'ira di Dio se il presentat'arm è fatto male o se un ufficiale non sa alzare la gamba nel passo romano, ma di queste deficienze, che conosce a fondo, non sembra preoccuparsi oltre un certo limite".

Questo brano porta la data del 2 maggio 1939; proprio alla vigilia del "Patto d'acciaio" che lega l'Italia alla sorte di una Germania militarmente preparata.



Gli uomini delle montagne salutano i conquistatori

Gli albanesi non oppongono resistenza. Ma dopo l'occupazione della Grecia le tribù scateneranno una durissima lotta partigiana contro gli invasori nazisti e fascisti. Sui retroscena dell'occupazione un articolo di GIAN CARLO FUSCO apparso su "L'Europeo"


Per capire il carattere del generale Alberto Pariani. basta conoscere la storia della sua villa di Malcesine, sul promontorio di Dorso di Ferro.
Più di mezzo secolo fa, il giovane sottotenente degli alpini Pariani ebbe il comando di una piccola squadra di segnalatori che dai contrafforti superiori del Monte Baldo dovevano comunicare con un altro gruppetto di militari accampati al di là del lago di Garda, sulle alture della riva bresciana. A quel tempo gli alpini avevano in capo una specie di bombetta scura con la penna ritta e rigida come un coltello. Per gli zappatori era obbligatoria la barba, tanto che i comandi di battaglione avevano in magazzino delle barbe finte da consegnare, insieme al corredo, alle reclute imberbi. Guglielmo Marconi stava ultimando i suoi esperimenti attorno alla bianca villa di Sasso, e le comunicazioni volanti dell'esercito. quando non vi fosse tempo o possibilità di stendere fili. erano affidate ai piccioni del Genio colombofili, oppure. sorprendente e discussa novità, a quegli apparati ottici, muniti di uno specchio, di una saracinesca e di un tasto i quali, valendosi del sole o di un lume a petrolio, mandavano lontano, lampeggiando, i punti e le linee dell'alfabeto Morse. Appunto una squadra di ottici comandava, sul Baldo, un po' prima del '900, il sottotenente Pariani. I segnali luminosi s'incrociavano ogni giorno, mattina e pomeriggio, sulle acque azzurre del Garda.

Nella foto: le nostre truppe alla periferia di Tirana.


Qui sopra: contadini albanesi scendono a piedi dalle montagne verso la capitale dopo l'arrivo delle unità italiane.


Un pomeriggio, verso il tramonto, finito il servizio, il sottotenente si allontanò dal suo piccolo distaccamento, ed andò ad accoccolarsi, solitario, sulla cima di un dente della roccia. Era primavera, quando i tramonti sul Garda sono lunghi e cambiano dieci volte in un'ora i colori del cielo e del lago.
Proprio sotto il giovane ufficiale, a strapiombo, un poco a nord delle vecchie tegole di Malcesine, c'era un breve promontorio coperto d'una vegetazione scura e selvaggia. Quando parve che il sole si fosse del tutto spento dietro le severe rocce che dominano Campione, sulla riva bresciana, un raggio di luce rossastra scivolò su quel promontorio e vi restò a lungo, impigliato fra gli olivastri e i roveti.
Il sottotenente, reggendosi il mento con le mani, guardò quell'estremo miracolo del tramonto, poi decise che proprio lì, su quel promontorio, si sarebbe costruita una casa. Un mese dopo, acquistò il terreno pagandolo quattro lire al metro quadrato. In seguito, anno per anno, durante tutta la sua carriera, da subalterno a generale d'armata, costruì, ingrandì e abbelli la villa dove oggi vive con la moglie Giselda e le sue molte memorie.
Un uomo che per mezzo secolo tiene fede a un proposito, e si riposa a ottant'anni nella casa progettata a venti, può non essere un campione di fantasia, ma è certamente un esempio di coerenza e di volontà.


Mussolini se n'era dimenticato

Nel 1933, di ritorno dall'Albania, allorché il generale Bonzani gli comunicò il rimprovero solenne di Mussolini, rimprovero che andava scritto nei suoi documenti matricolari, Pariani troncò le condoglianze e le giustificazioni del collega dicendogli semplicemente: "E tu scrivi".
Se ne tornò quindi a Malcesine, dove la certezza di aver fatto a Tirana, per sei anni, il proprio dovere, gli serbò intatti il sonno e l'appetito. Né si meravigliò, qualche mese dopo, nell'estate del '34, allorché il ministro Gazzera lo fece di nuovo chiamare a Roma, di tutta urgenza, per annunciargli che Mussolini, impensierito più di quello che non mostrasse per il putsch nazista del 24 luglio, in Austria, aveva deciso di affidargli il comando della divisione del Brennero.
"E il rimprovero solenne?" chiese Pariani. "Quando gliel'ho ricordato, così, per pura correttezza" rispose Gazzera "Mussolini è caduto dalle nuvole. Disse di non ricordare affatto alcun rimprovero; che, comunque, se qualcuno lo avesse, chissà mai perché, già scritto sulle tue carte, lo si cancellasse senza indugio."
"E tu cancella" fece Pariani. Ventiquattr'ore dopo, senza neppure fermarsi a Malcesine per prendere il bagaglio, arrivò a Bolzano. Vi era stato a lungo, venticinque anni prima, allorché aveva fatto parte della commissione per i nuovi confini. Vi trovò che la corrente austrofila, anziché diminuire, era notevolmente cresciuta, specialmente nella zona settentrionale della provincia.
Non perse tempo. Nel mettere le artiglierie in posi- zione offensiva (per una "manovra estiva" eccezionalmente agguerrita) ebbe cura che i pezzi fossero puntati sulle case dei podestà e dei parroci più notoriamente avversi all'Italia; poi invitò bonariamente quei parroci e quei podestà a visitare le batterie, e fece loro notare, di passaggio, la posizione dei pezzi. Fece in modo che i turisti austriaci che rientravano in patria in automobile passassero in mezzo ai reparti in assetto di guerra. Visitò il vescovo principe di Bressanone e, con molto rispetto, da buon cattolico, gli rammentò i suoi doveri verso il gregge italiano…
Sebbene, di lì a poco, Francia, Inghilterra e Italia confermassero a Ginevra il loro fermo proposito di tute- lare l'indipendenza austriaca, il confine del Brennero restò tranquillo. Alla fine di luglio, Hitler sconfessò il colpo di mano viennese e l'assassinio di Dollfuss. Il dottor Schuschnigg diventò presidente del nuovo governo austriaco. Il 2 agosto mori Hindenburg, e il duce dei nazisti assunse il potere supremo e assoluto, unificando nella sua persona le due cariche di capo del governo (can- celliere) e di capo dello stato (Reichsführer).
La divisione del Brennero restò, dunque, con le armi al piede; ma, nonostante ciò, Mussolini mostrò di apprezzare il comportamento di Pariani nominandolo, nel '35, sottocapo di stato maggiore dell'esercito con funzioni di capo. Sottosegretario alla Guerra era il generale Baistrocchi.

Il 12 aprile una improvvisata Costituente viene "persuasa" ad offrire la corona d'Albania al re d'Italia. Ciano aveva, del resto già deciso con i notabili albanesi la nuova forma costituzionale da dare al paese. Nella foto: partenza in aereo di un reparto per l'Albania.


Avendo mal digerito lo smacco viennese, Mussolini andava meditando la spedizione etiopica. Centinaia di gerarchi fascisti fingevano di fremere, sdegnati, per il famoso incidente di Ual-Ual, sul confine della Somalia.
Il generale Pariani, nelle ore che oggi gli lascia libere il municipio di Malcesine, sta scrivendo le proprie me- morie che, un giorno o l'altro, conta di raccogliere in volume. Apprenderemo da esse, in modo esatto e completo, la storia della campagna etiopica e della guerra di Spagna.
A noi interessano, per ora, i ricordi del generale in rapporto all'Albania. Non è tuttavia possibile capire chiaramente in che atmosfera e con che anima Alberto Pariani organizzasse, per ordine di Mussolini, nell'aprile del 1939, la spedizione albanese, senza tratteggiare gli avvenimenti che la precedettero e che, opportunamente approfonditi, saranno indubbiamente utili anche agli storici del secondo conflitto mondiale.

La mattina del 7 ottobre 1936, il generale Baistrocchi, sottosegretario alla Guerra, chiamò Pariani e gli mostrò una lettera di Mussolini. Erano una decina di righe autografe con le quali il dittatore annunciava a Baistrocchi di averlo "già" sostituito con Pariani.
Le consegne furono rapide. Primo atto del nuovo sottosegretario milanese fu di informarsi della situazione finanziaria del ministero di cui prendeva, praticamente, le redini. Risultò che i magazzini erano profondamente intaccati dalla spedizione etiopica; che al ministero della Guerra erano stati accreditati cinque miliardi e mezzo per il reintegro dei materiali inviati e persi in Africa orientale, ma che, in realtà, assorbivano i fondi straordinari previsti dal bilancio fino alla fine del '38: che il ministero era ancora scoperto per 1800 milioni, non ancora riconosciuti dal ministero delle Finanze, ma già impegnati da Baistrocchi; che nessuna assegnazione di fondi era stata decretata per la spedizione di Spagna, la quale era tuttavia già in atto da molti mesi e si annunciava particolarmente costosa proprio per il suo carattere di semiclandestinità. In conclusione, soltanto debiti da sistemare; e, per di più, un impegno, firmato da Baistrocchi, di non chiedere alcuna assegnazione straordinaria fino al 30 giugno 1938.

Si avanza su Tirana senza i collegamenti radio
GLI SBARCHI, male organizzati, avvengono tra mille difficoltà; gli automezzi hanno in dotazione carburante scadente. La colonna autocarrata in marcia verso Tirana rimane isolata per ore: i radiotelegrafisti richiamati in servizio non sono stati in grado di assicurare Il servizio di trasmissione. Nella foto: una nave da guerra sbarca i bersaglieri ciclisti nel porto di Valona.

Il 5 novembre 1936, circa un mese dopo la sua nomina a sottosegretario, Pariani, che era anche capo di stato maggiore, partecipo, insieme all'ammiraglio Cavagnari e al generale Valle, rispettivamente capi di stato maggiore per la Marina e l'Aviazione, a una riunione presieduta da Badoglio, capo di stato maggiore per le tre armi. La riunione (ne abbiamo sott'occhio il verbale) ebbe inizio alle nove e un quarto della mattina. Apri la seduta il generale Badoglio.
"Seguendo la nostra consuetudine del passato" egli disse testualmente "dovrei far precedere l'esposizione delle vedute politiche del capo del governo, per dedurne i provvedimenti militari da adottare; ma quest'anno la nostra situazione politica è stata così chiarissimamente esposta dal capo del governo in persona, nel suo di- scorso di Milano, che ogni mia parola sarebbe un pleonasmo."
Seguirono alcune considerazioni ottimistiche sulla situazione internazionale; poi Badoglio rammentò, concludendo, che tutti e tre i sottosegretari alle forze arma- te si erano impegnati a non chiedere fondi straordinari fino al giugno del '38.
Dopo un breve intervento di Cavagnari, prese la parola Pariani. Il suo linguaggio fu quello di un amministratore delegato, e Badoglio lo ascoltò con gli occhi fissi sulla tavola.
"L'amministrazione della Guerra" egli disse "è in queste condizioni: durante la campagna in A. O. si è aperto un capitolo 65 nel quale ognuno pescava, e il ministero delle Finanze approvava. Dopo la marcia su Addis Abeba, il ministero delle Finanze ha chiuso il capitolo 65. Ma quello che da noi è stato inviato in Etiopia era vero e proprio materiale di mobilitazione.

L'ORA DI CIANO
L'aggressione cara al ministro degli esteri è compiuta. "Il duce è felice, ascolta con attenzione il mio rapporto".

I miliardi che ci sono stati assegnati per integrare le dotazioni consumate in A. O. hanno già assorbito le assegnazioni fino al '39. L'amministrazione della Guerra ha già, attualmente, un debito di 1800 milioni, quindi non può più manovrare fondi... In conclusione l'amministrazione della guerra può solo tirare avanti; ma nessun nuovo programma; al più può e deve cercare di recuperare quanto più possibile dei 1800 milioni di passivo che oggi ha... e si vuole un programma nuovo, occorre la cifra tonda due miliardi e duecento milioni."
Queste dichiarazioni di Pariani, nella seduta del 5 novembre '36, sono importanti. Spiegano perché, nei due anni successivi, il generale, andando a rapporto da Mussolini, cercasse ogni volta di far scivolare il discorso alla questione della preparazione militare, affinché gli atteggiamenti di una politica che voleva essere forte, aggressiva, non restassero sospesi nel vuoto.
Mussolini ascoltava il suo sottosegretario con una pazienza che trapelava sotto l'aria calma e sicura. "Non allarmatevi" gli diceva, spostando le carte che gli stavano davanti. "Nessuno vuole la guerra."
Stava un momento in silenzio, apriva una copertina cartone grigio, impugnava una matita rossoblù e aggiungeva: "Almeno fino al 1943".
Nel marzo del 1939, invece, proprio mentre Alberto Pariani stava tristemente paragonando la produzione germanica di cannoni (1000 al mese) con quella italiana 5), Mussolini chiamò il sottosegretario e gli ordinò, n poche, secche parole, di prendergli l'Albania. Se non stano i due battaglioni che Ciano riteneva sufficienti, adoperasse pure una divisione appoggiata dall'aeronautica: quel che importava era che l'operazione fosse fulminea e segreta, tale da sorprendere perfino i tedeschi.
Pariani, del resto, aveva carta bianca. "Quanto tempo vi occorre per darmi Tirana?" concluse Mussolini.
"Quarantott'ore" disse, senza esitare, il generale, leggermente piccato per l'inframettenza di Ciano, la cui utilità, in diverse occasioni, aveva già constatato. Oggi, a distanza di quindici anni, il sindaco di Malcesine rammenta con particolare intensità di memoria e di emozione quel chiaro tramonto romano, ai primi di marzo, in cui, lasciato palazzo Venezia, rientrò al ministero della Guerra col peso di quella promessa. Affondato nei cuscini dell'automobile contrassegnata dalla bandierina, poco più azzurra dell'aria crepuscolare, egli ripensava all' Albania che aveva conosciuta, leale e selvaggia, nei suoi sei anni di permanenza a Tirana. Ai montanari dall'aria truce, in realtà ospitali e ingenui, che una volta, nel 1928, lo avevano ricevuto con onore nei boschi della Mirdizia; alle strade sassose, in mezzo alle selve, che un tempo aveva percorso a cavallo, da solo, senza paura; al silenzio delle moschee e alle mura bianche di Kruja. Ripensava ai soldati che dieci anni prima aveva istruiti e che adesso doveva combattere. E a quei pensieri si mescolava anche l'amara sensazione che qualcosa, nella vita del paese, precipitasse; il dubbio che, nella continua gara coi tedeschi, Mussolini diventasse sempre più impaziente, avventato, immemore della reale situazione italiana: assolutamente immatura per una guerra. Bisognava, tuttavia, preparare la spedizione albane- se, in modo che restasse segreta e riuscisse nelle quarantott'ore promesse.




VIVA L'IMPERATORE organizzano adunate e manifestazioni a favore dell'Italia. "La folla mi accoglie trionfalmente" dice Ciano. Qualche zona di freddo vi è ancora, ed è soprattutto fra gli scolari delle medie. Vedo che stentano ad alzare il braccio el saluto romano." Nella foto sopra: l'arrivo di Starace a Tirana; sotto: una manifestazione a Valona.


Il florido generale bolognese Guzzoni e l'enigmatico Messe furono chiamati a comandare le truppe che si andavano raccogliendo, senza dare nell'occhio, lungo il litorale pugliese: alpini, bersaglieri, fanti, carristi. Oltre che ai generali, Pariani comunicò le proprie istruzioni ai colonnelli, affinché i reggimenti e i battaglioni avessero possibilità di manovra autonoma, nel caso di qualche contrattempo o di una resistenza superiore al previsto. Gli agenti del servizio segreto misero in giro, ad arte, la voce che qualcosa si stesse preparando contro la Tunisia, affinché l'attenzione degli informatori stranieri si distogliesse dall'obiettivo reale. Alla fine di marzo, fu fissata con precisione la data dello sbarco, che sarebbe avvenuto, contemporaneamente, a Durazzo, a Valona, a Santi Quaranta (poi ribattezzato Porto Edda) e a San Giovanni di Medua: il 7 aprile; affinché il 21, natale di Roma, anche Tirana partecipasse alla festa.

La corona d'Albania a Vittorio Emanuele III.
I RAPPRESENTANTI della Costituente-fantoccio albanese dopo l'approvazione dell'annessione del paese all'Italia. Il voto naturalmente è stato unanime: l'unica opposizione è venuta dagli scutarini, "sobillati dal clero cattolico come scrive Ciano.

Il 3 aprile, quattro giorni prima dell'impresa, Alberto Pariani ricevette, con sua grande sorpresa, l'ordine di partire per l'Austria, dove il generale von Keitel, capo di stato maggiore germanico, lo attendeva per un importante, urgente colloquio. Poiché a quell'ordine era in qualche modo mescolato il ministero degli Esteri, il generale subodorò una manovra di Ciano. Partì, quindi, con l'animo inquieto; e i suoi sospetti vennero subito confermati dal fatto che von Keitel, dal canto proprio, non aveva nulla d'importante da dirgli. L'incontro avrebbe dovuto protrarsi fino a tutto il giorno 6; ma il sottosegretario italiano cercò di concludere nel pomeriggio del 5. I due generali si lasciarono con la reciproca, solenne promessa di non toccare per alcun motivo i Balcani.


La missione albanese a Roma sull'Altare della patria. È venuta ad offrire la corona a Vittorio Emanuele III. Gli albanesi ancora sperano in un simulacro di indipendenza: il duce, che li riceve a Palazzo Venezia, li disillude freddamente.

Leale promessa. La sera del 5 aprile, allorché Pariani arrivò a Roma in compagnia dell'addetto militare tedesco von Rahn, le truppe di Guzzoni e di Messe stavano già imbarcandosi per attraversare l'Adriatico.
Il 6, allorché ebbero inizio le operazioni, Alberto Pariani ricevette una telefonata di Mussolini. "Quarantott'ore" si limitò a ricordargli costui, scandendo le sillabe.
"Quarantott'ore" confermò il generale.
Il corpo di spedizione, aprendosi a ventaglio come le dita di una mano, avrebbe dovuto raggiungere i porti di sbarco alle prime luci del 7.



CIANO E GEMIL DINO firmano l'unificazione, nel giugno del 1939, dei servizi diplomatici di Italia e di Albania. Ciò significa praticamente la fusione delle forze armate sotto il comando unico italiano e la soppressione del ministero degli Esteri albanese.

Quell'attacco in diversi punti, lungo la costa, garantiva la rapidità del successo; giacché la consistenza delle truppe albanesi (e nessuno meglio di Pariani era in grado di valutarla) non era tale da poter resistere, contemporaneamente, a molti attacchi combinati. Poi le nostre colonne, rese celeri dagli automezzi che le accompagnavano, si sarebbero rapidamente spinte all'interno, puntando diritto su Tirana e le principali città.
Nei loro studi, a palazzo Venezia e al ministero della Guerra, Mussolini e Pariani si misero ad aspettare. Il ticchettio degli orologi era la loro unica compagnia.
Passò la notte fra il 6 e il 7. Ai primi chiarori, arrivò, puntuale, un messaggio di Guzzoni e di Messe, i quali annunciavano d'essere in vista della costa albanese.
"Quarantott'ore" telefonò ancora Mussolini, con la voce eccessivamente calma e uniforme che assumeva nei momenti di grande tensione.
"Quarantotto" rispose Pariani. "Non una di più”. Invece, da quel momento, cominciarono ad arrivare marconigrammi piuttosto confusi. In essi non si parlava di resistenza, anzi si diceva che le operazioni di sbarco procedevano svelte, senza intoppi, quantunque, fatta eccezione per Durazzo, i porti praticamente non esistessero. Ma si accennava, vagamente, a telegrammi giunti da Roma, per via dei quali tanto Messe quanto Guzzoni si trovavano in qualche perplessità. Soltanto la sera del 7, quando teoricamente il corpo di spedizione avrebbe già dovuto cominciare la sua marcia verso l'interno, si seppe che qualcuno aveva ordinato ai comandanti di sospendere le operazioni in attesa che certi misteriosi parlamentari di Zog raggiungessero la costa, latori di importanti comunicazioni.
Pariani capì che ancora una volta il ministero degli Esteri cercava di fargli lo sgambetto. Non c'era tuttavia tempo da perdere in inchieste e ritorsioni. Ogni tanto la voce sempre più brusca di Mussolini crepitava nel telefono: "Ne sono passate ventisei"; "Ne mancano venti"; "Siamo già alla ventottesima".

Dopo l'occupazione, il 20 giugno 1939 ha luogo a Tirana una grande parata militare. Assistono Badoglio e il luogotenente generale Jacomoni (nella foto).

"Non siamo ancora a quarantotto" rispondeva il generale, con la cravatta slacciata e le palpebre orlate di rosso. Spuntò l'alba del giorno 8. Si avvicinò mezzogiorno. Implacabile, dall'altra parte del filo, Mussolini rammentava al sottosegretario la scadenza promessa; il generale, coi gomiti appoggiati allo scrittoio, aveva ormai in testa soltanto un numero: quarantotto.
Suonò mezzogiorno. Mancavano cinque ore al tra- guardo, allorché, improvvisamente, Pariani prese una decisione. Ricordò che sul campo di Grottaglie, accanto a cinquanta apparecchi da trasporto, un reggimento di granatieri stava aspettando di decollare per Tirana una volta riuscita l'impresa. Bisognava che quei soldati partissero subito.


Nel corso della cerimonia a corte per la consegna dello statuto agli albanesi il re osserva, in tono seccato, che sul documento non v'è alcun segno della dinastia nella bandiera albanese.
Scrive Ciano che il duce, a conoscenza dell'episodio, esplode affermando che "il re è un piccolo uomo infido, che si preoccupa di un ricamo sulla bandiera..."
Nella foto: il duce riceve la missione albanese nel salone di palazzo Venezia.


Mentre compilava il marconigramma contenente l'ordine, al generale vennero in mente due cose: il terribile sistema difensivo del campo d'aviazione di Tirana, che egli stesso aveva fatto costruire nel '33, e una illustra- zione che lo aveva colpito da ragazzo, quand'era allievo del collegio militare. In essa si vedeva il duca di Wellington, impassibile e incipriato, in atto di contemplare con un piccolo cannocchiale il campo di Waterloo. Accanto a lui, sopra un panchetto di velluto rosso, c'era la pistola carica con cui si sarebbe ucciso in caso di sconfitta.





"Chi ha in mano l'Albania" afferma il duce in un discorso "ha in mano la regione balcanica.
Noi abbiamo fatto dell'Adriatico un lago italiano".
Nella foto sopra: Mussolini riceve le coppie albanesi che hanno figli ospiti delle colonie fasciste; Seconda foto: la manifestazione allo Stadio dei marmi per la consegna della corona di Scanderberg al re; sotto: sfilata di truppe albanesi.


"Pariani, mancano due ore" sibilò la voce di Mussolini. "Centoventi minuti".
I granatieri partiti da Grottaglie sarebbero arrivati a Tirana in un'ora e un quarto. Nel cassetto della scrivania, Alberto Pariani sapeva di avere la sua pistola d'ordinanza.
Un po' prima che scoccassero le quarantott'ore, arrivarono, tutti insieme, una decina di marconigrammi. I granatieri erano scesi sul campo di Tirana, nello stesso, preciso momento in cui vi arrivavano i primi carri armati della Centauro. Re Zog era fuggito nella notte insieme alla moglie fresca di parto, ai cortigiani più fedeli e alle riserve auree della banca d'Albania. Messe e Guzzoni erano padroni della situazione.
"Siete stato di parola" disse Mussolini al telefono. "Mancano venti minuti".
Pariani bisbigliò qualcosa. Mentre metteva giù la cornetta, gli occhi gli caddero sul grande calendario a peso di fronte alla scrivania. Seppe così ch'era Sant'Alberto vescovo. Il suo santo.
Sette mesi dopo, il 30 ottobre 1939, il generale ricevette la seguente lettera: "Caro Pariani, credo che questa lettera non vi sorprenderà, dato che sto procedendo a un cambio quasi totale della guardia. Sono ormai quindici anni che lavoriamo insieme e ho avuto quindi modo di apprezzare le vostre qualità di soldato, di fascista, di comandante. E bene che altri provi che cosa significa governare e preparare l'esercito, specie di questi tempi. Nessuno potrà contestare, né io dimenticare, quanto avete fatto per l'Africa, la Spagna, l'Albania. Mussolini".
Alberto Pariani, che aveva appena ultimata un'inchiesta dalla quale risultava chiaramente che né l'esercito né l'industria erano pronti per una guerra, capi che Mussolini aveva intenzione di entrare, presto o tardi, nel conflitto europeo; e che non poteva farlo mantenendo al suo posto un sottosegretario, capo di stato maggiore, al quale aveva assicurato cento volte che mai, perlomeno fino al '43, l'Italia si sarebbe mossa.
Il generale milanese tornò a Malcesine un mattino piovoso di novembre. Sebbene fosse in servizio attivo, doveva restare sul Garda, senza incarichi né comandi, fino all'aprile del '43. Poi, in quella primavera piena di vanità moribonde, sarebbe cominciata la sua ultima avventura albanese. La più breve e la più drammatica.

[1] Storia del Fascismo.N.49. 7 aprile 1939 la conquista dell'Albania. 18 febbraio 1965.

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