Albania oggi: due milioni di anime diecimila poliziotti[1]

Testo e foto di Fernand Gigon (1965)



Questo è il primo fotoservizio a colori realizzato in Albania dall'inviato di un giornale occidentale. Varcati i cancelli della frontiera proibita, ecco come vivono gli albanesi d'oggi nella “filiale” della Cina che Mao ha aperto in riva all'Adriatico. Gli stessi miti e slogan del comunismo cinese: la povertà eroica, la dedizione allo Stato, il nazionalismo fanatico.

 

Due poliziotti controllano i documenti, poco prima di una partita di calcio allo stadio di Tirana.


Le donne sono ai campi, gli uomini alle armi, gli albicocchi in fiore e i poliziotti dappertutto. Talvolta le donne lasciano la vanga e imbracciano il fucile, o viceversa. Gli unici che non lasciano niente sono i poliziotti in divisa, berretto piatto o cappello in pelo di capra, o in borghese, cioè con l'impermeabile di marca italiana. Essi tengono un milione e 800.000 abitanti in un pugno così stretto, lo sorvegliano così da vicino, che nessun atto di nessun cittadino può sfuggire loro.

Un gruppo di tecnici cinesi a passeggio per Tirana. I cinesi hanno preso il posto dei russi.

Tra le tante funzioni dei poliziotti c'è quella di badare che gli stranieri in visita non si allontanino dalla comitiva; c'è quella di sedersi al loro fianco nei ristoranti o nelle tribune degli stadi. L'incubo di questi agenti è che voi riusciate a scattare una fotografia d'un albanese miseramente vestito, sullo sfondo, magari, d'un nuovo palazzo governativo, o di una fabbrica in costruzione. La polizia, più che il regime politico tiene l'Albania in uno stato di ibernazione. Essa è incorruttibile, e siccome assassini e rapinatori sono alquanto rari in questo Paese, si dedica prevalentemente ai reati politici. Le pene vanno dai cinque anni in su, e si scontano nei campi di lavoro (circondati da una cortina di silenzio e mistero) dove il lavaggio del cervello va di pari passo con la raccolta delle patate.

I ritratti degli attuali “eroi del lavoro” esposti al pubblico in una strada della capitale.

Ufficialmente, i poliziotti in servizio “per la sicurezza dello Stato” sono diecimila. Ma poi bisogna tener conto di tutti coloro che vengono a mettervi una mano davanti all'obiettivo della Leica, di tutti quelli che si aggirano lungo le frontiere, tra Thethi, Kukesi e Zergani, per arrestare i transfughi che cercano scampo verso la Iugoslavia. Questa attitudine allo spirito poliziesco, questa secolare diffidenza è il frutto non soltanto del regime dittatoriale ma anche dell'antica oppressione turca durata cinque secoli.

Il Premier Enver Hoxha. (1965)

Nessun altro Paese al mondo, eccetto il Tibet, è così ermeticamente chiuso, condannato da sé stesso a una tale asfissia. Una nazione che è a portata di mano, e tuttavia è la più impenetrabile d'Europa. A Tirana esistono due sole ambasciate occidentali: l'Italia e la Francia. La Turchia, la RAU, il Ghana, Cuba, l'Algeria vi tengono solamente delegazioni diplomatiche. E dietro di loro i Paesi dell'Est, tutti salvo l'Unione Sovietica.
L'Albania è oggi un altoparlante cinese puntato sull'Occidente, che diffonde una strana ideologia, un po' inumana e un po' messianica, ma certo in grave ritardo sul pensiero marxista più moderno. I “duri” e i “puri” del comunismo occidentale lo ascoltano come un sacro vangelo, cosicché questa ideologia finisce per minare le fondamenta del blocco comunista molto più che tutti gli attacchi riuniti del- le nostre democrazie.
Per circa diciotto anni i sovietici, per avere un piede in Albania, hanno mantenuto una ambasciata di tremila persone, sovvenzioni sproporzionate al go- verno, una serie di piani quinquennali, settecento borse di studio all'anno a studenti albanesi, e quindici sommergibili imboscati nelle grotte sottomarine di Sassano, un fucile puntato sulla VI flotta americana in Mediterraneo, e soprattutto sulle navi che incrociano nell'Adriatico.

Il monumento a Stalin in piazza Scanderbeg (l'eroe nazionale albanese) a Tirana. Qui Stalin è ancora venerato come un tempo.

Non sappiamo se i sovietici, prima di abbandonare il Paese coperti da una campagna ingiuriosa, fossero riusciti a conquistare la gratitudine degli albanesi. Un fatto è certo: che nelle biblioteche gli unici testi tecnici e scientifici sono stampati in lingua russa, e che ad essi bisogna riferirsi per far funzionare le fabbriche installate dai russi un po' dovunque. Nelle scuole, invece, è obbligatorio l'insegnamento del cinese. La seconda lingua straniera è il francese. E in francese si esprime, molto correttamente, il segretario del Partito e dittatore del Paese, Enver Hoxha, e con lui gli intellettuali, gli uomini della sua generazione che impararono il francese al liceo di Korça o alla scuola Kyrenia della capitale. Dopo il 1939, all'arrivo degli italiani, lo studio della lingua di Descartes fu sostituito con la lingua di Dante.

Un tabellone di propaganda politica sulla strada che porta da Durazzo alla capitale. La parola partise (partigiano) ricorre in tutti gli slogan. La sigla PPSH è quella dell'unico “Partito del Lavoro Albanese”.

Qualche anno fa incontrai a Pechino quattro albanesi incaricati dal governo cinese di collaborare alla progettazione del piano quinquennale che deve essere varato nel 1968. Essi parlavano perfettamente il francese ed evocavano spesso gli anni della loro giovinezza al liceo di Korça o alla facoltà di lingue dell'Università di Tirana. Attualmente, Parigi e Tirana sono in buoni rapporti, e si scambiano anche insegnanti per qualche settimana, ma il governo albanese è sempre in guardia, nel timore che un'eccessiva liberalizzazione degli scambi culturali possa influenzare negativamente il rigido marxismo locale.
Il credo politico, e sentimentale, degli albanesi è racchiuso in una frase: “Chi è nemico della Iugoslavia è nostro amico”. Da qui, il culto che Tirana continua a votare allo stalinismo. Da qui, la fedeltà al mito del dittatore rosso. Nelle città albanesi la statua di Stalin si erge maestosa nella piazza principale. Per vederne altre, oggi, bisogna andare in Cina, oppure in Georgia, patria del Maresciallo. A Tirana, il suo monumento domina la piazza Scanderbeg (eroe nazionale dell'indipendenza albanese contro i turchi) e sembra sfidare ogni tempesta ideologica. All’aeroporto, Stalin troneggia sopra il bar e su una serie di fotografie commemorative, con didascalie in caratteri cirillici.

Domenica a Tirana: intorno alla vecchia moschea si radunano i tifosi di calcio per acquistare i biglietti della partita.

Del resto, anche gli edifici governativi, di una straordinaria bruttezza, le case popolari, le città satelliti che circondano la capitale recano l'impronta dell’architettura sovietica. Lo stile caserma, a volte con colonnati che non reggono nulla, trionfa nelle città e nei villaggi. Un cattivo gusto che però ha sostituito in molte periferie il muro di terra battuta o di argilla e paglia impastate. Incompiuta è invece rimasta la colossale ambasciata sovietica, che gli albanesi non hanno avuto il tempo di ammirare. Eppure, non si può dire che i russi non abbiano lasciato tracce di sé attraverso gli innumerevoli esperti consulenti, ingegneri e tecnici venuti dagli Urali o dal Volga. Hanno svegliato per primi questo popolo dal suo lungo sonno, gli hanno inculcato uno stile di vita che si ritrova nella burocrazia e nella polizia. E ora i cinesi stanno cercando di modificare queste abitudini, di comunicar loro le proprie.

Un altro manifesto politico che inneggia alla unione tra operai e contadini. Nove albanesi su dieci vivono di agricoltura.

Visto di schiena, l'ufficiale albanese assomiglia in ogni particolare a un ufficiale russo: la stessa uniforme severa d'un verde smorto, lo stesso berretto a visiera con nastro rosso verde o blu, le stesse spalline dorate, gli stivali che arrivano al polpaccio. Gli istruttori della Scuola di Mosca hanno insegnato a lungo alle reclute albanesi la nuova arte della guerra. Ma non della guerriglia, troppo pericolosa. Per diventare fantaccino, artigliere o carrista, il giovane richiamato impiega due anni. Tre per diventare aviatore.
Succede, scendendo da Tirana verso il mare, di imbattersi in soldati in addestramento. Marciano in fila indiana, ai bordi della strada, oppure trascinano su ripidi sentieri un cannone da campagna. In queste manovre, che sembrerebbero ordinarie, si ridesta il partigiano che dorme nel fondo di ogni albanese e lo trasforma in uno dei migliori soldati d'Europa. Lo sanno bene gli italiani, e poi i tedeschi, che ne subirono gli agguati mortali e gli improvvisi attacchi a raffiche di mitraglia.

Ragazzi in un sobborgo di Tirana. La città conta oggi 140.000 abitanti. Il livello di vita degli albanesi è considerato il più basso tra i Paesi del blocco comunista europeo.

Liberata dai suoi partigiani, l'Albania dedica ad essi un culto che dura ancora. Letteratura, pittura, scultura ne celebrano le gesta. Nel piccolo museo di Durazzo, ad esempio, un terzo delle tele esposte raccontano l'epopea partigiana. Nei cimiteri le tombe dei caduti sono decorate di stelle che rosseggiano tra il verde dei parchi. La parola “partigiano” si ritrova nei nomi delle strade, dei cinema, delle scuole, delle fattorie collettive, dei circoli operai. “Lavdi“, che significa “gloria” è la parola chiave dell'Albania. Essa è dipinta, disegnata, scolpita, cantata, scritta dappertutto. Ha il potere di esplicare una specie di mobilitazione permanente del Paese. Qui sembra che la guerra sia appena finita. Gli ex collaborazionisti coi nemici di ieri, a vent'anni dalla pace, non hanno ancora diritto al voto, e l'inno nazionale comincia con le parole: “Questa bandiera rossa che ci ha unito nella lotta...”.
Fanatismo e passione patriottica rimpiazzano spesso ogni altra virtù degli albanesi. Qui ogni uomo che sia giovane e d'aspetto robusto porta una divisa. Ma forse è una falsa impressione, perché non dovrebbero servire così tanti militari per formare un esercito di appena 25.000 uomini inquadrati in tre divisioni, per condurre 150 carri armati e pilotare poche decine di Mig sovietici. Se la presenza dell'esercito balza evidente agli occhi dello straniero, lo è ancor di più per gli albanesi, che in esso vedono la loro principale forza.

Giovani tiranesi all'esterno di un cinema in cui si rappresenta il film italiano “Il ferroviere” di
Pietro Germi. Italia e Francia hanno in Albania le uniche due ambasciate occidentali.

È all'esercito che toccherebbe il compito di opporsi a un'invasione, se le mire di annessione iugoslave sulla Macedonia, o greche sull'Epiro del Nord, diventassero realtà. Infatti, appena Hoxha sente che il Paese sta sfuggendo al suo pugno di ferro, gli basta evocare il fantasma dei suoi vicini per ritrovare l'unanimità intorno a sé. È una forma di nazionalismo che esplode persino, con violenza primitiva, nelle partite internazionali di calcio. Hoxha se ne serve allo stesso modo delle sfilate di missili, che per la prima volta quest'anno sono apparsi in una parata militare a Tirana. Sono missili di forma sovietica, ma di fabbricazione cinese. Le rampe si trovano in montagna, a mille metri d'altezza, e sono in grado di lanciare un razzo con assoluta precisione su Roma come su Sofia o Belgrado.

Un manifesto antiamericano sul Vietnam.

L'esercito è uno degli aspetti che meglio illustrano il declino di Mosca in favore di Pechino, I Mig, ad esempio, consegnati a suo tempo dai russi, non possono volare a lungo senza pezzi di ricambio. I cinesi ne fabbricano, ma in quantità insufficiente. I reparti motorizzati, formati da automezzi Siz o Skoda, sono scomparsi. E oggi i 175 chilometri di strada asfaltata sono abbandonati ai civili, ai ciuchi e ai carretti dei contadini. Quanto ai soldati, costretti ad andare a piedi, sono tornati alla loro vera natura di guerriglieri montanari, in perfetta regola con le teorie e la tattica di Mao-Tse-tung.
Al tempo della sovietizzazione dell'Albania, i russi tenevano a Tirana tremila persone. I cinesi invece si contentano di duecento specialisti, i quali oltretutto hanno il potere di rendersi invisibili, e se attraversano in auto il centro della città lo fanno a tendine calate. La presenza della Cina si avverte piuttosto per altri segni, negli slogan ad esempio (collocati su ogni albero o palo telegrafico lungo la strada d'ingresso a Tirana) che inneggiano all'amicizia cino-albanese. 

Il carretto dei gelati

Le carte geografiche esposte nelle librerie comprendono nella Cina rossa anche Formosa. E così il Vietnam non si ferma ad Hanoi, ma arriva fino al Sud, Ai cristalli delle vetrine sono incollati manifestini di protesta, parole d'ordine contro i bombardamenti americani al di là del 17"parallelo. Gli stessi disegni, gli stessi slogan politici che si possono leggere in questo momento sul viale della Grande Pace a Pechino, Anche la campagna ripete le identiche caratteristiche, con i gruppi di lavoro (quasi sempre donne) che assomigliano alle squadre delle Comuni popolari. Uguale il metodo di lavoro, in lunghe righe, punteggiate di rosso, che non è il rosso delle bandiere leniniste ma il rosso dei corpetti turchi, curvi sulla terra. Persino il paesaggio ha assunto un'aria cinese. Questi campi nudi, queste colline a terrazze con alberelli striminziti piantati in vetta, ricordo di averli visti nel Swechwan, o nei dintorni di Chuking, con scritte programmatiche disegnate nel terreno.

 Un aspetto del traffico nel centro di Tirana, qui regolato da due agenti. La bicicletta è ancora il mezzo più diffuso in un Paese dove la motorizzazione è appena nata. Sul viale Nuova Albania, l'arteria principale, passa un'auto ogni venti minuti.

Anche qui si può leggere, su una collina di peschi in fiore, la scritta “Lavdi PPSH” che significa “gloria al partito del lavoro albanese”. Lo slogan si stacca nitidamente più chiaro sul verde cupo degli alberi, composto com'è di migliaia di pietre bianche o mattoni dipinti a calce. Una scritta che si legge a chilometri di distanza.
Un altro terreno di scrittura sono i muraglioni di cinta delle fabbriche, le facciate delle aziende agricole, i marciapiedi e l'asfalto delle strade. Dovunque il nostro occhio si posi, è sicuro di incontrare una parola scritta: lotta, gloria, comitato, partito operaio, eroico, partigiano, eccetera.
Quel che manca invece in Albania è la parola parlata, la comunicazione diretta, o meglio il coraggio di comunicare senza impaccio, senza paure, Ecco un esempio. Su una strada, verso sera, due operai stanno facendo del podismo, camminano svelti. Quando sono alla mia altezza uno di essi domanda senza guardarmi: “Parlate tedesco” e poi senza attendere risposta aggiunge in tedesco: “Avete qualcosa da vendere?” Poi, sempre senza guardarmi, si allontana insieme al compagno a passi spediti.
Il contatto con lo straniero, qui subito riconosciuto, è evitato persino dai diplomatici e dagli alti funzionari. Se a un ristorante accade di vedere la moglie di un dirigente albanese insieme a una straniera, state certi che si tratta di un invito ufficiale, per ordine del Partito, e non di un rapporto privato, di simpatia personale. Albanesi e stranieri sono, anche in casa propria, divisi da invisibili cortine.

Durazzo: un manifesto pubblicitario per le opere complete di Mao Tse-tung pubblicate in edizione economica al costo di pochi lek (un lek vale circa 5 lire).

Lo stesso Henver Hoxha appare raramente in pubblico. La sua qualifica di Primo segretario del Partito gli permette di starsene lontano dai cocktails e dai ricevimenti alle ambasciate. Fa una vita modestissima, come del resto i suoi ministri, i funzionari, i generali, i quali non possiedono ne automobili private né personale di servizio. Una marcata austerità, o meglio una povertà collettiva, accompagna questi uomini in ogni azione della loro vita. Il regime comunista, dopo vent'anni di esercizio e di dittatura, ha ottenuto due soli risultati: il primo, di evolvere il Paese da uno stato di miseria a uno stato di povertà; il secondo, di obbligare gli albanesi a lavorare. Poco importa se a furia di scapaccioni e slogan, ma il risultato è innegabile.

Un busto di Stalin nella piazza principale di Durazzo

Adesso si tratta di progredire a un livello di decoro, e per arrivarci i cinesi hanno ideato una serie di piani quinquennali che essi tolgono dal portafoglio come tante ricette miracolose. Pechino ha offerto a Tirana uno stabilimento di prefabbricati, un cementificio, un'industria tessile, e una fabbrica di concimi chimici. Ma poiché in questo campo non hanno alcuna esperienza, gli albanesi hanno chiesto al Governo italiano le maestranze necessarie. Pechino, poi, pagherà la fattura.
Comunque, sorgano oppure no, le nuove fabbriche, l'Albania rimane una nazione povera, con nove abitanti su dieci dediti all'agricoltura. La paga di un operaio specializzato è di 6000 lek, quella di un professore universitario 9000. Un bracciante o un impiegato, con i suoi 4000 lek mensili può appena permettersi un paio di scarpe. Affitti e tasse sono minimi, ma il vitto, se si oltrepassa il livello del granturco e del formaggio, pesa parecchio sul bilancio familiare. Per la carne si fanno code ai negozi, specialmente durante le feste pasquali, in cui agnello e montone sono piatti tradizionali da mettere in tavola.

Il nuovo Palazzo della Cultura a Durazzo, L'edificio ospita un teatro, un museo e una sala per concerti. Durazzo (42.000 abitanti) possiede manifatture di tabacco.

La donna albanese fa la coda per avere una qualità di pesce raro, poiché il suo Governo lo vende all'Italia. In compenso, suo marito deve fare la coda per un biglietto dello stadio, che il sindacato fornisce a prezzi ribassati. È una scena, questa, che si può osservare nel centro di Tirana, tra il nuovo Palazzo della Cultura e la vecchia moschea, dove si radunano i “bagarini” del football sotto l'occhio compiacente delle guardie. In mancanza di biglietto, si finirà per seguire la partita in uno dei 70.000 posti di ascolto radiofonici, sparsi in tutto il Paese, oppure al cinema, dove Sofia Loren gareggia con i partigiani cinesi della “Lunga Marcia”. Nelle campagne il Corano ha lasciato il posto a Marx, ma i costumi e le abitudini dei padri sono rimasti invariati, le donne col viso seminascosto dalle fasce bianche, pronte a dileguarsi nelle case all'arrivo di uno straniero, spesso a piedi scalzi.
Insieme a quelli di Pechino, i vigili di Tirana hanno il primato dell'inutilità. Sul viale Nuova Albania che scende dalla statua di Stalin all'Università, la strada misura oltre venti metri di larghezza, ma eccetto qualche autocarro e gli autobus, vi transitano solo due o tre automobili ogni ora. Eppure il vigile si sbraccia col suo bastone bianco e colpi di fischietto per far attraversare i passanti.
Questa capitale votata al lindore obbligatorio, priva com'è di traffico, tenuta pulita da poche anziane spazzine, pare addormentata. Somiglia a una scenografia di cemento armato, di marmo ed angoli retti, da cui si attende, improvvisa, l'esplosione di un dramma. In effetti, questo piccolo popolo di montanari, che elabora un'ideologia comunista spicciola, priva di fumi demagogici, si sente oggi al centro del mondo, imparentato coi seicento milioni di cinesi.
Anzi, da questo punto di vista, si può dire che Tirana ha riflessi più rapidi di Pechino. Le sue analisi degli avvenimenti mondiali precedono quelle del Partito comunista cinese, e lo Zëri i Popullit supera spesso il Genmingibao. Tuttavia, nessun testo dottrinario o documento per gli attivisti di Partito, viene pubblicato senza l'imprimatur dei cinesi.
Nella piazza Scanderbeg, un colossale edificio in costruzione esibisce con orgoglio i suoi colonnati di marmo e le sue gradinate surreali. È il Palazzo della Cultura. Alla sua ombra prospera il piccolo commercio di alcune vecchie che hanno installato delle pese pubbliche; vi salgono sopratutto donne, ansiose di verificare per la modica cifra di un lek se è possibile ingrassare in un Paese tanto povero di viveri e ghiottonerie.

Il Viale Nuova Albania, strada fondamentale di Tirana, si estende verso l'Università. Quest'ultima, visibile all'orizzonte, è un'eredità del periodo di dominio italiano, eretta per decisione del governo dell'epoca.

In una serie di vetrinette, il passante può ammirare esposte fotografie a colori, di straordinaria qualità tecnica, che nessun altro occidentale può vedere. Sono le immagini della prima atomica cinese, nata il 16 ottobre 1964 nel deserto di Tsai-Dan, colte in tutte le fasi della produzione, dalle ricerche all'esplosione del “fungo”. Altre foto mostrano gruppi di studenti cinesi caricati dalla polizia durante una dimostrazione a Mosca; segno evidente che il fotografo era stato già avvertito dai provocatori.
Come l'antica Grecia, l'Albania moderna vende il suo olio d'oliva per lottare contro la povertà e industrializzare il Paese. Sulle colline di Dajti e di Sauku circostanti Tirana, esperti venuti dall'Italia hanno piantato trecentomila giovani ulivi. Quest'olio è la moneta di scambio con la Cina, perché di oro l'Albania ne possiede soltanto sulle stelle delle bandiere rosse. A parte la frutta, un po' di tabacco, qualche minerale, le sue spiagge, un bellissimo paesaggio, l'Albania non ha nulla da offrire al visitatore.
In compenso essa esporta la bellicosa ideologia dei cinesi in Europa. E questo basta perché si parli dell'Albania nei giornali, e perché un po' della sua dottrina rivoluzionaria, infiltrandosi tra milioni di comunisti “kruscioviani”, di qua e di là dell'Adriatico, riesca a gettare in qualcuno di essi il seme del dubbio, Cioè, agli occhi di Mosca, la più nociva malattia dello spirito.



[1] Storia Illustrata, Arnoldo Mondadori Editore. Novembre 1965.




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