Viaggio in Albania 1939



Il blog “Cronache Albanesi”, fin dalla sua nascita, si è dedicato con passione e impegno a una vera e propria missione: esplorare i meandri delle biblioteche, delle librerie e del vasto mondo digitale alla ricerca di tutto ciò che potesse raccontare l'Albania, la sua storia e la sua cultura. Questo impegno ci ha portato a proporre numerosi articoli provenienti da riviste prestigiose di diverse epoche, offrendo una visione ampia e dettagliata di come l'Albania sia stata percepita e raccontata nel corso del tempo. Oggi vogliamo condividere con voi un raro documento: un articolo tratto dalla celebre rivista “Tempo”, datato 21 dicembre 1939, che offre uno spaccato della realtà albanese di quel periodo.
Vista la lunghezza dell'articolo, lo pubblicheremo suddiviso in parti per permettervi di apprezzarlo a fondo e cogliere ogni dettaglio.
Buona lettura e buon viaggio nel tempo attraverso le pagine della storia!

Il 19 agosto S. E. il Ministro degli Esteri conte Ciano accompagnato dal Sottosegretario agli Affari Albanesi S. E. Benini, ha inaugurato le opere pubbliche con le quali si inizia la vita della nuova Albania. A Tirana, a Durazzo, a Valona, moltitudini di Albanesi di ogni condizione hanno testimoniato la loro fedeltà al rappresentante dell’Impero Fascista. Giornate di entusiasmo hanno scosso l’Albania da un capo all’altro: dopo dieci secoli di lotte si annuncia un avvenire sicuro.


Viaggio in Albania[1]

Prima parte



Fototesto del nostro inviato Lamberti Sorrentino
Tirana, dicembre.

Per avere un posto nell’apparecchio Roma-Tirana, bisogna prenotarsi quattro o cinque giorni prima. All’Aeroporto siamo in quattordici, e i posti disponibili sono dodici.
Questo accade ogni mattina — mi spiega un funzionario dell’Ala Littoria — ogni mattina vi sono due o tre volontari dell’attesa, tipi che hanno il passaggio prenotato per i giorni successivi, e che tuttavia vengono qui, nell’illusione che qualcuno manchi o ritardi, e lasci libero il posto.

Vi è un generale, con la divisa da passeggio, e il colletto duro bianco; ha quattro file di chevrons, e il tatuaggio di guerra, e il petto non gli basterà per le medaglie. Si sorride con complicità, non si dà dell’aere; un generale di nostro tempo, un uomo come un altro, che vive in mezzo agli altri uomini. Trenta anni fa, un Comandante di Brigata lo si guardava con l’ammirata lontananza che si ha per i pezzi da collezione.
Due giovanotti romani hanno l’aria d’aver dormito poco, e commentano favorevolmente l’ordinanza che ha riaperto le sale da ballo. Meno male che un balletto c’è scappato, dicono, prima di tornare in Albania. Sono ingegneri nella miniera di cromo di Kupirola. Li ritroverò più tardi, sul lavoro, inzanccherati freschi alla luce con il badile fatto come mattina. Ingegneri italiani, per lo più piemontesi, avevano vissuto mesi interi nei cantieri polverosi della Sardegna, e più, per l’abitudine alla letteratura imperialistica delle democrazie, mi sembrava che dovessero essere quasi tutti inglesi, belgi, francesi, olandesi. Ne abbiamo anche noi.
- E molti: in Albania siamo circa cinquantina — dicono i due giovanotti, gridandomi all’orecchio. Intanto i meccanici hanno acceso i motori. Davanti a me prende posto una bella albanese matura, vestita come le signore che frequentano i grandi alberghi internazionali; l’accompagnano due signorine, una bruna e una bionda: una la chiama zia, l’altra mamma. Forse ella non può sentire, perché s’è messa il cotone nelle orecchie, e guarda lontano. Gli ingegneri hanno ballato con loro la sera prima; sono tutti allegri. Credo che queste tre donne albanesi siano venute in Italia per partecipare alle manifestazioni: così mi è sembrato di capire dai loro discorsi, fatti in un italiano abbastanza chiaro. Quando la nostra lingua non basta, viene in soccorso il vocabolario francese: che gli ingegneri traducono, gentili e persuasivi. Le ragazze trovano la maniera di palesare che il loro italiano è adatto quasi solo per le due corone, quella italiana e quella albanese, si sono riunite. Prima di salutarla molto francese, in quel mondo di albanesi educati all’occidentale, e di personale straniero delle legazioni: mondo di cui le tre compagne di viaggio facevano parte, questo si capisce subito. Come tutti, si comprende che esse tornano a Tirana rinvigorite socialmente dal soggiorno a Roma, più prestigiose.
All’ultimo momento arriva un capitano delle guardie di finanza: saluta il generale, porge la mano alle signore e parla con loro in albanese. Siede accanto a me. Porta un solo nastrino, la croce di cavaliere. Possibile che nelle forze armate dell’Impero esista un ufficiale che non abbia fatto nemmeno una guerra, nemmeno una? Attacco discorso, ed egli, in un italiano affettuoso, mi racconta di ch’era ufficiale nella guardia reale di Zog. Ora è passato a far parte dell’esercito albanese, fuso con quello italiano.

 Il tempo passato non è dimenticato: nella città di Cruja la torre di Scanderbeg ricorda ancora le sanguinose lotte sostenute dal popolo albanese contro l’Oriente, lotte che evitarono danni all’Europa.

— Avete comandato guardie e ufficiali italiani? — gli chiedo.
— Sì — risponde.
— Tutto bene?
— Tutto bene — annuisce soddisfatto, quasi tronfio. Gli osservo le stellette: sì, proprio, le nostre stellette: d’argento e cinque punte. Questo è l’Impero, constato. Ai tempi di Paolo Emilio e di Pompeo, gli albanesi che allora si chiamavano illirici ed epiroti, furono inquadrati da consoli romani. E vi furono anche allora decurioni e centurioni illirici ed epiroti, che ebbero funzioni di comando nelle legioni della metropoli. Anzi vi fu un imperatore romano nato a Durazzo: Anastasio I.
— E quando vi hanno fatto cavaliere? — chiedo al capitano albanese. Sorridendo compiaciuto, risponde:
— Oh, prima dell’unione: io ho tradotto in lingua schipetara dei discorsi del Duce. — Gli chiedo se è cattolico oppure ortodosso.
— Musulmano — mi dice, ed aggiunge sotto voce:
— Anche le tre signore sono musulmane: la signora nacque turca, e sposò un ex deputato di El Bassan al parlamento di Costantinopoli.
Guardo gli altri quattro passeggeri che non ho osservato; hanno i baveri in su, e si sono imbottite le orecchie di cotone. A sapere di questi quattro, chissà quante cose imparerei sull’Albania, prima di arrivarci.

 Questa stele funeraria fa parte del complesso archeologico sotto il nome di Nike di Butrinto, rinvenuto a Butrinto, nell’Albania meridionale, con altro materiale di alto valore nei vari rinvenimenti, dovuti in gran parte alla missione archeologica italiana diretta dal compianto Ugolini. Sono le testimonianze della colonizzazione romana in Albania.

Nei pressi di Petrella, villaggio caratteristico musulmano a 15 chilometri da Tirana, celebre per la tomba dell’antagonista di Scanderbeg, il famoso Balaban Pascha, vi è un castello di origine veneziana; fra i ruderi del castello ai margini di un contrafforte è rimasta abbandonata questa vecchia bocca da fuoco che ricorda antiche battaglie.

Sono le nove in punto quando l’aeroplano si stacca da terra: piove. A mano a mano che ci s’innalza, il perimetro di Roma si arrotonda, le cupole s’appiattiscono; ogni elemento della città perde valore, meno le piazze, le quali conservano l’ampiezza. Piove fitto, si vede luccicare l’asfalto nelle grandi vie. I giardini si riducono a macchie di verde cupo. Di bello, di monumentale, in questa Roma vista dall’alto, non rimane niente. Basta un punto di vista diverso, a cambiare le cose, anche se queste sono eterne. Entriamo nella nuvolaglia, una sfilacciata miseranda nuvolaglia che si stacca, grigia, dal grigio del cielo, come un detrito senza valore. L’aeroplano avanza tagliente tra quelle mucillaggini; ecco un banco fitto, cupo; è come se ci affogassimo in esso. S’incolla ai finestrini una sporca giallastra luce da fine del mondo; mezz’ora di navigare cieco: malinconia. Poi altre mucillaggini, ma queste sono sotto di noi, ora; eccoci nel cielo terso. Il sole entra dai finestrini, torna il sorriso sopra i volti. Il capitano albanese ha aperta una mappa: è la cartina col viaggio aereo Roma-Tirana; i cerchietti delle due capitali sono uniti da una retta punteggiata. Il capitano mette un dito a un terzo della retta, indica il punto dove siamo. Egli è pratico della linea. Siamo su Bari. L’aviazione ormai è un fatto di tutti, pure non si può far a meno di pensare che in ferrovia, da Roma a Bari, si impiegano otto ore. Tante ne impiegammo con i giornalisti al seguito del conte Ciano nell’agosto scorso. Quel viaggio torna in mente. Tre mesi fa, ed era un altro mondo. Nel mondo non c’era la guerra; in fondo, allora, alla guerra non ci credevano nemmeno quelli che la davano per certa.

A Scutari, la città a nord dell’Albania, quasi sul confine jugoslavo, vi sono i resti di famose fortificazioni, con strati di civiltà sovrapposte: quella bizantina, poi quella veneziana. Ben conservate sono le fortificazioni del Castello Rozafat; si ricorda che nel 1474 il comandante veneziano Loredano respinse gli assalti di un esercito turco di 30 mila uomini.


In tutta l’Albania sono vivi i segni del dominio veneziano. Le caratteristiche architetture della Repubblica marinara si riconoscono anche tra le soprastrutture dei riattamenti seguiti in varie epoche e sotto varie influenze. Notevoli sono i ponti ardentemente lanciati da un capo all’altro dei fiumi albanesi; parecchi di tali ponti sono ancora oggi in ottimo stato.


 Una storia degli italiani in Albania non è stata ancora scritta; ma è sicuro che essa, dagli avvenimenti di oggi, si riallaccerà alle tappe della storia e balzerà al futuro protagonismo. Ecco la prima automobile apparsa in Albania, nel 1913: essa portava un gruppo di pionieri italiani che volevano fondare a Durazzo fabbriche di laterizi.

 Il fascismo è stato presente in Albania, come dottrina, come morale, ed anche come organizzazione, fin dagli anni della vigilia. Ecco un documento interessante: la fondazione del fascio di Durazzo, avvenuta nella sede di quel consolato d’Italia nel 1927. Allora in Albania vennero i fascisti all’estero; oggi i fascisti albanesi ed italiani sono affratellati.

Furono giornate splendide. L’allegrezza e lo squillo su tutta l’Albania, da un capo all’altro, come un’eco di campane a stormo. Allegrezza e fiducia unirono le vette delle montagne scutarine alle acque stagnate di Butrinto: da nord a sud non vi fu mai nella storia albanese tanta uniformità di consensi. L’Albania, prima ancora di chiamarsi così, nacque come ponte e visse come molo, sbarcatoio, magazzino di transito. I romani, bravi costruttori di strade, arrivati a Brindisi con la via Appia, non si diedero pensiero del mare; lo traversarono; e all’approdo, giusto di fronte, Durazzo, misero un’erma: ad ovest vi scolpirono Appia, e ad est Ignatia. La via Ignatia raggiunse Bisanzio, ed è ancora una strada viva, a differenza dell’Appia divenuta rudere.
Qui non scriveremo il solito capitolo di storia; ma osserveremo che gli albanesi non possono essere un popolo che possa da solo vivere e prosperare. Vi sono popoli che abitano terre dove il passaggio è obbligato, strade maestre necessarie per l’espansione di nazioni più grandi, corridori vitali e indispensabili per l’irradiazione di civiltà dei popoli potenti. Così l’Albania, che significò transito per i serbi, montenegrini, bulgari, greci e turchi — anche se transito di secoli — per i romani prima e per gli italiani ora, assume il valore di una propaggine oltre il mare. Per questo motivo i turchi giunsero in Albania combattendo, vi rimasero combattendo, se ne andarono combattendo; gli italiani vi arrivarono in pace, e non se ne andranno mai più. I balcanici, anche quando vi si installarono, ne rimasero metà fuori, e in tutto il paese non seppero starci: vollero conquistare, non assimilare. Romani e veneziani ebbero questa terra come protettori, e la loro concorrenza non era che la formula base della vecchia tecnica imperialista. Come le cose sono cambiate, ora lo si vedrà. Gli albanesi, con tutti questi popoli e queste razze, che si rincorrevano combattendo sul loro suolo, finirono col non comprenderle più. L’Italia li volle indipendenti; e il loro governo, ignaro di tal governare, non fu che un errore solo, in ogni senso. E un bel giorno i reggimenti italiani traversarono l’Albania da un capo all’altro. Le armi praticamente rimasero inoperose.
È storia di oggi, tutti lo sanno: entrando nelle città quei reggimenti non spararono le mitragliatrici; suonarono le fanfare; non abbassarono bandiere; resero gli onori delle armi alle bandiere albanesi, e accanto, da eguale ad eguale, accanto vi misero la bandiera italiana. Insieme con le baionette, anzi sulla punta delle baionette, condussero una nuova morale, quella di una migliore giustizia sociale. Nulla fu leso: case, averi, persone, chiese, moschee, tradizioni, costumi, abitanti, rimasero intatti. Non vennero tasse o requisizioni o arbitrii: ci fu ricchezza, perché ci fu lavoro, ci fu giustizia perché ci fu forza. Accanto all’aquila schipetara si è messa un’aquila imperiale potente e giusta. Sotto la sua ala si sta bene. Oltre la sua ala c’è piombo, lo sanno amici e nemici. Per la prima volta in tutta l’Albania si è sicuri dell’oggi e del domani. Rroftë. Evviva. Diciamo al Conte Ciano la nostra soddisfazione di saperci tranquilli. Canti, adunate, cortei, balli e fiaccolate. Un atto di nascita, un senso di alba diffuso e contagioso.
Noi giornalisti guardavamo oltre le bandiere e il numero: guardavamo la gente negli occhi, per sapere la verità. Ciano e il suo seguito formavano un gruppo di uniformi bianche, bello da vedere. Rroftë Duce, Rroftë Ciano, gli occhi degli albanesi erano molli di fiducia, la fiducia degli ingenui, fatta di istinto, che non si sbaglia, ma che non va tradita senza rischi. Occhi in un certo senso stupiti. Dove tre mesi prima era il niente paludoso e melanconico, nascevano costruzioni. Solamente gli italiani sanno creare in fretta, e bene. Quello che avveniva, ciò che prendeva forma in quei giorni sembrava un miracolo. Albanesi e italiani erano stupiti; il Ministro degli Esteri era felice. Tirana, Durazzo, Valona: due giornate febbrili: visite, inaugurazioni, colpi di forbici sui nastri tricolori che aprivano strade, cucchiaiate di calce su tante prime pietre: un nuovo primo giorno della creazione. Da Valona si sta per partire in aereo alla volta di Scutari. Questa corona d’Albania non è un fatto concertato, una finzione politica, ma una realtà umana; ed era piacevole sentire la realtà amichevole dei luoghi e delle genti.
Non andammo a Scutari. Il Ministro degli Esteri partì per Roma sul proprio apparecchio. Noi giornalisti tornammo via mare. Di sera il comandante ci confidò ch’erano arrivate disposizioni speciali. Che ordini? chiedemmo. Anche nel ’15 si cominciò con ordini simili, capire. Rimanemmo perplessi. Si ha la civetteria di voler individuare nel momento che si vive il momento storico. Invece, quello fu un momento come un altro.

Continua…


[1] Tempo – Roma 21 dicembre 1939

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